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Nella solitaria oscurità, riuscivo quasi a sentire la limitatezza della vita e la sua preziosità. La diamo per scontata , ma è fragile, precaria, incerta, e può cessare da un momento all’altro senza preavviso. Mi veniva ricordato quel che dovrebbe essere ovvio ma troppo spesso non lo è, che ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, meritano di essere vissuti bene.
(“Io & Marley” – John Grogan)

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portici_morro_alba1Per stare vicini a una persona morente, senza sentirci arrabbiati, delusi o impotenti, è importante sviluppare un diverso atteggiamento nei confronti della morte, la cosa più naturale che può capitare, come la nascita.

Andando a fare un giro in un terreno incolto, noteremo la rigogliosità della natura, noteremo anche piante e alberi morti, secchi, caduti, altri in putrefazione. Ma se andiamo a vedere nel dettaglio cosa c’è vicino, dentro, sotto, noteremo dell’altra vita che sta per nascere: piccole erbe, formiche
che scavano il legno, germogli, altri insetti che freneticamente si muovono, l’aria che si muove, le piccole gocce di rugiada…

In ogni cosa che finisce c’è l’inizio di qualcos’altro. La morte non è in opposizione alla vita, non c’è dualità in questo, come invece noi pensiamo. La morte è complementare alla nascita, almeno in questo mondo. Dove c’è la nascita c’è anche la morte, e la vita include tutto questo. La vita in
qualche modo è eterna, perché è il ciclo della nascita e della morte, tutti i cicli compongono ed appartengono alla vita. Come la nostra anima, che appartiene alla vita, non solo dalla nascita e fino alla morte.

– Mentre scrivo questa frase, il correttore del programma di scrittura mi suggerisce di usare anziché “fino alla morte” la frase “fino all’ultimo”: sembra che sia veramente insito nel mondo occidentale la paura della morte, anche solo nominarla può dare fastidio -.

Vediamo la morte come momento disperato, perché ci identifichiamo con il corpo, con gli oggetti e gli affetti che sono esterni a noi. Pensiamo che con la morte perdiamo tutto questo, ed  effettivamente è vero, ma la casa, l’auto, i parenti, il lavoro non siamo noi. Nella vita diamo molto peso alle cose materiali, ci identifichiamo con queste, e trascuriamo il valore della vita interiore. Per questo motivo la morte ci spaventa, pensiamo che sia una perdita totale, l’annullamento completo di noi.

Ed in parte è così, con la morte se ne va l’ego, ma noi non siamo solo il nostro ego, siamo molto di più, siamo quello che è stato con noi fin dal momento della nascita e che ci accompagnerà anche nella morte. Questo non è l’ego, perché quando nasciamo non abbiamo nessuna esperienza personale, eppure ci siamo, esistiamo e da subito diamo il nostro contributo alla vita.

Non è necessario avere “fede” per comprendere queste cose, non è necessario seguire una religione, basta fare un viaggio dentro di noi, per scoprire e sperimentare il nostro collegamento con l’anima, quella parte di noi che può sopravvivere in ogni circostanza, quella dimensione trascendentale che è
insita in noi stessi.

Nel ricordare che dobbiamo morire, ricordiamo anche che abbiamo una dimensione invisibile, non collegata al corpo, ricordiamo la nostra pura essenza, che va oltre i nomi e le forme. Ricordiamo che abbiamo la possibilità di scegliere in questa vita: possiamo decidere se vivere in conformità alle regole, all’educazione, alla socializzazione che ha formato il nostro ego, oppure vivere in collegamento diretto con la nostra anima, con quella parte più profonda che è venuta sulla terra per evolversi, per completare fino alla fine il suo compito.

Le persone che hanno avuto esperienze di premorte, sanno come ci si sente senza corpo: non è la fine del mondo, è l’inizio di qualche cosa di diverso, che non possiamo nemmeno immaginare se rimaniamo sempre ancorati alla nostra realtà.

Se ci dimentichiamo chi siamo veramente, affronteremo la morte con paura, rabbia e dolore, e penseremo che è la fine di tutto. Questo ci porta ad essere a disagio per tutta la vita, perché la morte prima o poi si avvicina a noi, attraverso la scomparsa di qualche persona cara, di qualche
famigliare o anche attraverso gravi perdite della vita, quali divorzi, fallimenti, perdita di beni, etc.

Sapere affrontare la morte con serenità aiuta moltissimo ad affrontare la vita con serenità, ogni attimo diventa quello buono per non lasciare niente in sospeso, di inconcluso, per terminare ogni giorno con una profonda pace.

Dobbiamo morire, perciò il nostro ego è destinato ad andarsene, come tutte le forme cui lo abbiamo associato, come le relazioni sociali con cui ci siamo identificati. Imparare a morire, a lasciare andare le cose, sapere che possono avere una fine, ci aiuta anche nella vita pratica quotidiana. Ogni piccola sconfitta può essere vista come una piccola morte, come la conclusione di un ciclo, all’interno del ciclo della nostra vita. Potremo pensare che sia penoso, perché sentiamo la perdita, il disorientamento dentro di noi, avere dei dubbi “chi siamo veramente”, senza quella determinata cosa.

Abbiamo la possibilità invece di affrontare ogni piccola perdita con la cognizione che è necessario accedere dalla nostra parte più profonda per poter rinascere. Dentro alla nostra anima c’è la vera forza della vita, c’è la pura essenza che non ha bisogno di identificarsi con la materia e le
emozioni, c’è la possibilità di rinascere, di ricominciare in ogni momento dall’inizio, ed attingere al potere di guarigione, che è in collegamento con tutto l’universo, e necessario nella nostra vita.

Se siamo vicini ad una persona morente, non ci dobbiamo sentire arrabbiati, delusi, impotenti. La morte non è un evento anomalo ed eccezionale, come ci fa credere la nostra società, è la cosa più naturale che possa capitare, come la nascita. Perciò stiamo vicini alle persone che muoiono con
naturalezza, accettando che un ciclo sia completato, lasciando da parte il dolore, richiamando la calma e la serenità: le anime, la nostra e quella del morente, sanno che non è la fine di tutto.

(di Nello Ceccon) – tratto da Lista Sadhana yahoo.it

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colbert

(Frank Ostaseski è stato il fondatore, nel 1987, dello Zen Hospice Project e oggi ne è l’insegnante guida.)

Attraverso il suo insegnamento e i suoi scritti ha introdotto migliaia di persone negli Stati Uniti e in Europa all’esercizio della compassione e della consapevolezza nell’accompagnamento dei morenti. Tiene regolarmente conferenze e ritiri in varie parti del mondo per chi è impegnato in attività di assistenza e per chi sta affrontando malattie gravi.Viene regolarmente in Italia dal 1999)

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<Affrontare la morte insieme>

(di Frank Ostaseski)

[dal libro “Fare Amicizia con la Morte*”

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Alcuni anni fa, mentre nel nostro hospice stavo girando su un fianco un paziente per lavargli la schiena, lui mi disse, voltando il viso sopra la spalla: “Sai, non ho mai pensato che fosse così!”. lo sono molto sincero con gli altri e così gli ho chiesto: “Come pensavi che fosse?” e lui mi rispose: “Non ci avevo mai pensato”. In quel momento capii che questa comprensione per lui rappresentava una sofferenza maggiore del cancro in fase terminale che aveva al polmone.

La morte lo aveva afferrato di sorpresa.

Per ciascuno di noi c’è un angolo molto scuro nella nostra mente. E lì, proprio in quell’angolo, c’è una voce che ci dice: “Un giorno morirò”. Il modo in cui diamo ascolto o respingiamo questa voce determina come vivremo le nostre vite. A volte la voce ci parla molto chiaramente, ad esempio quando a stento sfuggiamo a una disgrazia o quando muore qualcuno che cono­scevamo. Invecchiando i capelli si diradano e diventano grigi e le nostre pance più molli ed è allora che la voce si fa sentire con più frequenza. Man mano che la morte si accumula nella nostra vita, la voce ci parla più spesso. Quando muore qualcuno che amiamo allora ci urla; ci fa sapere che la nostra vita non sarà mai più la stessa, ma che è stata alterata per sempre.

La morte è la questione centrale delle nostre vite eppure a mala pena pronunciamo la parola. In America impieghiamo tutta una serie di eufemismi al posto della parola ‘morte’. Le persone non muoiono, se ne vanno o finiscono, come una carta di credito. Nella vita facciamo piani su tutto:
con chi ci sposeremo, dove andremo in vacanza, quale carriera intraprendere, quanti bambini avere… tutte cose che potranno non accadere mai. Ma per l’unica cosa certa che ci capiterà non ci prepariamo. E anch’io non sono poi tanto diverso dagli altri.

Ogni giorno lavoro con persone che stanno morendo e ancora ci sono dei giorni in cui penso che a me non capiterà. Ma molto lentamente. nel corso di questi vent’anni, la morte ha iniziato a richiedere la mia attenzione ed è proprio perché richiama la nostra attenzione che essa ha una tale grazia e un tale potere. In qualche modo galvanizza la nostra attenzione nel momento. Quando parlo della morte non lo faccio per spaventarci o intristirci ma perché in base alla mia esperienza, stando con persone che stanno morendo e riflettendo quotidianamente sulla morte, ho visto che è il migliore dei modi che conosco per entrare pienamente nella vita. Non conosco nessuna altra cosa che mi mostri a me stesso con la stessa chiarezza come lo stare accanto a qualcuno che sta morendo.

Quando vediamo la morte da vicino, a portata di mano, proprio sulla punta delle dita, iniziamo a capire qualcosa della vita. Cominciamo ad apprezzare che ogni cosa cambi: ogni pensiero, ogni relazione, ogni atto d’amore viene e va.

E una volta compreso questo, non ci attacchiamo più troppo strettamente a ogni cosa. Forse non ci prendiamo più nemmeno troppo sul serio. E questa qualità coltiva in noi la capacità di cedere, abbandonare e incoraggia la nostra generosità. Mi sembra strano, ma è vero, che la riflessione sulla morte ci rende più gentili gli uni con gli altri.

Quando si inizia a vedere quanto sia precaria la vita, allora si capisce anche quanto essa sia preziosa e allora non si vuole sprecare nemmeno un momento. Si desidera vivere pienamente, si vuole dire agli altri che li amiamo sul serio.

Il tema di cui volevo parlare stasera è la relazione che si instaura tra chi sta morendo e chi presta assistenza. Ciò che e importante capire fin da subito è che tutti ne abbiamo la capacità, ognuno di noi sa come prendersi cura di un altro.  Lo abbiamo fatto per centinaia di anni e ora lo abbiamo solo dimenticato: dobbiamo ricordarcelo a vicenda. Abbiamo reso talmente per specialisti l’assistenza ai moribondi che ne abbiamo paura. All’inizio forse è importante comprendere che morire non è un fatto medico. Dobbiamo impiegare il meglio di ciò che la medicina ci offre per assistere chi sta per morire, ma non dovremmo permettere che sia la medicina a guidare l’esperienza. Morire è piuttosto una questione di rapporti: con noi stessi, con le persone che amiamo e con qualsiasi immagine che abbiamo della estrema gentilezza. Il nostro compito dunque è di facilitare queste relazioni e scoprire come ciascuno incontrerà la propria morte. Qual è il modo unico che ciascuno ha di affrontare questa esperienza?

Sarebbe davvero bello se avessi una pratica bella e pronta da potersi applicare in ogni situazione. Mi piacerebbe potervi dare una borsa piena di trucchi da portare con voi accanto al letto della persona che sta morendo.

Temo però che servirebbe solo a separarvi dalla persona che state assistendo. La morte di ognuno è completamente unica così come lo è la costellazione di esperienze che accompagnano la morte. Non esiste un solo modo. Tuttavia penso che ci siano dei precetti o pratiche che possano essere utili per guidarci mentre stiamo accanto a una persona che sta per morire. Recentemente sono intervenuto a una conferenza molto importante a cui erano presenti molti dottori famosi. Avevano portato diapositive, video e avevano preparato dei discorsi scritti molto bene con un punto dopo l’altro in bella successione. Il mio stile è un po’ meno formale, ma ho voluto provare a sfidarmi per vedere se ero capace di pensare cinque punti importanti. E adesso li voglio condividere con voi.

Il primo precetto: accogli tutto, senza respingere nulla.

Che cosa significa? Come fare? Iniziamo creando un ambiente straordinariamente ricettivo, un ambiente caratterizzato dalla bellezza. Non solo dalla bellezza fisica, ma dall’apprezzamento per la bellezza che si incontra in quella circostanza, l’apprezzamento per il modo in cui ogni individuo attraverserà il processo della sua morte.
Vi racconto una storia che aiuta a illustrare questo punto. Le storie sono il metodo migliore perché possiamo entrarvi ogni volta che ne abbiamo bisogno. C’era un uomo che era stato mandato al nostro hospice, veniva dal reparto psichiatrico dell’ospedale distrettuale e si trovava li perché aveva un cancro al polmone e voleva uccidersi. Non vedeva come la sua vita avesse alcun valore. Entrai nella sua stanza e mi sedetti in silenzio accanto a lui. Dopo un mi disse: “Nessuno si è mai seduto vicino a me in questa stanza per così tanto tempo”. Gli risposi: “Ho molta pratica a stare seduto fermo, che cosa vorresti? ”

«Degli spaghetti” disse. “Noi facciamo degli spaghetti molto buoni, perché non vieni a casa nostra e stai con noi?” gli risposi. E’ stato questo il nostro colloquio di ammissione. Il giorno successivo quando poi venne, c’erano gli spaghetti pronti che lo aspettavano. Bisogna capire, per lui gli spaghetti erano la casa e il nutrimento in ogni senso. Rimase con noi per tre mesi e il suo desiderio di uccidersi non spari solo perché gli avevamo dato gli spaghetti, sebbene li facciamo veramente buoni! In quel periodo era uscito in America un libro che descriveva i diversi modi per uccidersi. Lo voleva e allora glielo procurai e glielo lessi.

Accogli tutto, senza respingere nulla.

Ero completamente convinto che ciò che quest’uomo tentava di scoprire era dove trovare il valore della sua vita. Poco prima di morire mi disse: “Frank, ti voglio ringraziare perché sono più felice ora di quanto non lo sia mai stato in tutta la mia vita”. “Come è possibile, poche settimane fa volevi ucciderti perché non ce la facevi a camminare nel giardino? ” gli chiesi E lui: “Quello era solo un correre dietro al mio desiderio”. “Vuoi dire che le attività della tua vita non hanno più tanta importanza per te?”
“No, non sono le attività che mi portano gioia, ma l’attenzione all’attività” e proseguì: “Adesso il mio piacere deriva dal fresco della brezza e dalla morbidezza delle lenzuola”.

Un cambiamento notevole per quest’uomo che avevo incontrato la prima volta nel reparto psichiatrico. Accogliere tutto, senza respingere nulla richiede coraggio. Una ricettività senza paura, dal momento che non abbiamo idea di come andrà a finire.

– Secondo precetto: porta tutto te stesso in questa esperienza –

Significa che per essere di servizio di un’altra persona dobbiamo mettere anche noi stessi nell’equazione. Ma prima voglio spiegare la parola ‘servizio’ perché può generare molta confusione. Spesso si pensa al servizio come all’essere servili o spesso lo definiamo come un peso o un obbligo.
Quando parlo di servizio, invece, io intendo qualcosa di simile all’accompagnare un’altra persona. Per farlo dobbiamo essere disposti a indagare la nostra esperienza. Se diciamo all’altra persona: “Io capisco” senza averlo fatto, l’altro capirà che ci stiamo buttando a indovinare. Quando serviamo è il nostro intero essere a servire. Inclusi i nostri talenti, ma anche le nostre ferite e paure. E’ proprio l’investigazione interiore che crea un ponte di empatia con la persona di cui ci stiamo prendendo cura.

Avevo un mio amico, John, che stava morendo di AIDS, gli volevo molto bene, era un mio carissimo amico. Un giorno, mentre gli stavo vicino, è successo un fenomeno neurologico molto strano: in quel solo pomeriggio di colpo perse la capacità di tenere una forchetta, di stare in piedi o di dire qualcosa di comprensibile. E’ stato molto duro. Sto pensando a lui, adesso. Anche quando qualcuno muore, il rapporto continua. Fu terribile quella giornata con lui. E’ durata tutta la notte fino alle prime ore del mattino. In un solo pomeriggio la condizione di john cambiò in modo drammatico: perse la capacità di tenere una forchetta, di stare in piedi e di formulare delle frasi comprensibili. Mi spaventai a morte.

Assisterlo era difficile. Oltre a questo nuovo e strano disastro neurologico, soffriva anche per dei dolorosissimi tumori anali e una diarrea costante. Mi sembrava di aver trascorso tutta la giornata spostandolo dalla vasca da bagno al gabinetto e poi di nuovo alla vasca. Solo tenerlo pulito richiedeva uno sforzo senza fine. Si dimenava e borbottava parole senza senso, si era fatta notte. Alle tre del mattino ero esausto. Non avrei fatto altro che dormire, volevo che lui tornasse a letto e che la mattina mettesse fine a quell’incubo.

Tentai di prendere il controllo della situazione facendo ricorso a ogni trucco che conoscevo: a momenti lo blandivo, poi ero gentile in modo molto superficiale, poi diventavo manipolativo, arrivai anche a sgridarlo. Feci di tutto per riportarlo a letto in modo da potermi riposare.

A un certo punto, in mezzo a uno degli spostamenti dalla vasca al gabinetto, parlò e dalla sua mente confusa sentii dirmi queste parole: “Ti stai sforzando troppo”. Aveva ragione, era proprio così, stavo sforzandomi troppo per mantenere il controllo, respingere la paura ed evitare il dolore di quella situazione. Mi fermai di colpo, mi sedetti sul water e tutti e due scoppiammo a piangere. La scena era incredibile: John con i pantaloni del pigiama tirati giù fino alle ginocchia, io con la carta igienica in mano, le feci erano dappertutto.

Guardando retrospettivamente posso dire che quello è stato l’incontro più squisito di tutta la nostra relazione. Eravamo là, totalmente indifesi, insieme. In quel momento non c’era più niente che ci separasse, non c’erano finzioni e neppure sforzi. Non restammo cosi per sempre, stare in quello stato ci mostrò cosa fare dopo; solo dopo essere stati disponibili ad arrivare fino a quel punto abbiamo capito cosa fare in seguito.

Porta tutto te stesso al capezzale, porta tutto te stesso nell’esperienza.

– Terzo precetto: non aspettare.-

Quando aspettiamo siamo Pieni di aspettative; quando aspettiamo ci sfugge ciò che questo momento ha da offrirci. Siamo talmente occupati a preoccuparci per ciò che il futuro ci riserva che perdiamo le opportunità che ci stanno davanti. Se c’è una persona che amiamo, non aspettiamo per dirglielo. E’ un assurdo gioco d’azzardo aspettare fino al momento della morte per fare questa investigazione o per esprimere il nostro affetto l’uno per l’altro. Quando lavoro con le famiglie, incoraggio tutti a parlare direttamente con la persona che sta morendo. Li incoraggio a essere sinceri, a esprimere il loro amore.

Quarto precetto: trova un luogo dove riposare in mezzo alle cose.

Spesso pensiamo al riposo come a qualcosa che faremo quando tutto il resto sarà finito. Come quando andiamo in vacanza o abbiamo finito di lavorare. Ma nel lavoro di accompagnamento delle persone che stanno morendo, dobbiamo riuscire a trovare questo punto di riposo, a volte anche in mezzo al caos. Questo luogo è sempre lì per noi, è sempre a disposizione. Dobbiamo solo portarvi l’attenzione e imparare a non ostacolarlo.

Una volta mi chiamarono a casa perché una donna nel nostro hospice stava per morire. Arrivai per stare con lei.

Era un’anziana donna ebrea russa di ottantasei anni, molto dura, senza il minimo interesse per il buddhismo, Quando entrai nella sua stanza faceva molta difficoltà a respirare, ansimava. Di solito cerco di intervenire il minimo possibile e dunque mi sedetti in un angolo della stanza. Le avevamo gia somministrato tutte le medicine del caso e degli analgesici. Non c’era dolore, ma sofferenza.

Un’infermiera che le sedeva vicino e a un certo punto si rivolse ad Adele, questo era il nome della donna, dicendole: “Non aver paura, sono qui io”. Al che Adele replicò: “Mi creda, se si trovasse nella mia situazione anche lei avrebbe paura”. Dopo un po’ l’assistente disse: “Mi sembra che abbia freddo, vuole una coperta?” La donna rispose: “Certo che ho freddo, sono quasi morta!” Davanti a quella situazione feci due osservazioni: la prima era che Adele voleva qualcuno che fosse molto diretto con lei, non voleva sentire discorsi new-age sulla morte. La seconda era che la sua sofferenza si manifestava nel respiro. Mi avvicinai e le chiesi:

“Vorresti lottare un po’ meno? ” ” Sì “. Allora proseguii: ” Ho visto che c’e un piccolo posto proprio li, al termine dell’espirazione, una piccola pausa. Dimmi se puoi, anche solo per un attimo, portare l’attenzione proprio in quel punto”. Ricordate? La donna non aveva mai avuto il minimo interesse per il buddhismo o la meditazione o cose del genere, ma aveva una forte motivazione a liberarsi dalla sua sofferenza. Così riuscì a portare l’attenzione in quel posto di riposo, quel brevissimo momento alla fine dell’espirazione e un po’ alla volta vidi svanire la paura dal suo viso.

Aveva trovato un luogo di riposo nel mezzo delle cose. Quel momento di riposo che è sempre li, a disposizione di ciascuno; si presenta in modi diversi per ogni individuo. Dal punto di vista pratico potremmo dire che è il luogo che si trova tra due respiri. Dopo pochi altri respiri mori in
tutta tranquillità.

Trova un luogo di riposo nel mezzo delle cose, scoprì come si presenta nella tua vita.

– Quinto precetto: coltiva “la mente che non sa”.-

Si tratta di un’espressíone molto difficile da capire, non sono ancora sicuro di averla capita. Nella pratica zen esiste l’espressione “nel non sapere c’è la maggiore intimità”. Ci si riferisce al fatto che quando non sappiamo dobbiamo stare molto vicini all’esperienza e in questo modo si crea un’intimità con l’esperienza. E’ esattamente come entrare in una grotta buia senza nessuna luce. Non conoscendo la strada, la seguiremo a tentoni lungo le pareti, dovremo restare molto vicini all’esperienza.

Un mio amico una volta ha detto: “E’ come usare il metodo Braille, troviamo la strada attraverso l’esperienza”. Quando non sappiamo abbiamo la possibilità di vedere molto di più del quadro. Se entriamo nella stanza di una persona che sta morendo pieni del nostro conoscere, vedremo solo una parte limitata delle possibilità. 1 pensieri stessi che abbiamo sull’esperienza ci limitano e ci allontanano dall’esperienza e dalla persona che stiamo incontrando. Per questo diciamo che “nel non conoscere c’è la maggiore intimità”. Se paragoniamo ciò che sappiamo con ciò che non sappiamo, dobbiamo ammettere che ciò che non sappiamo e molto più vasto. Perciò dobbiamo essere disposti ad accoglierlo.

Un’ultima storia. Un altro mio amico ormai prossimo alla fine aveva grosse difficoltà a respirare, la testa era reclinata all’indietro e la gola molto tesa: non sapevo che cosa fare. Un insegnante spirituale molto rinomato, che tutti conoscete ma di cui non voglio dire il nome, lo venne a trovare e mi disse: “Devi fare così: toccagli la cima della testa: il suo spirito sta tentando di lasciare il corpo e se tu farai come ti dico lo incoraggerai ad
andare via”.

Feci come mi aveva detto ma non successe nulla. Più tardi venne pure il medico che disse: “Bisogna dargli più morfina». Lo feci ma non successe nulla. Arrivò poi un famoso manipolatore del corpo che mi mostrò dei punti speciali sui piedi del mio amico che avrei dovuto toccare. Feci come aveva detto ma non successe nulla. Tutte queste persone avevano delle idee, erano anche delle buone idee, ma non erano l’intero quadro.

Ricordo che io sentivo solo che sarei dovuto andargli più vicino, così mi sdraiai accanto a lui nel letto e cominciai a carezzargli la gola e poi il cuore e un po’ alla volta la testa tornò in avanti e il respiro divenne più rilassato. Ancora non so se feci la cosa giusta, forse gli ho impedito di fare chissà quale esperienza spirituale, non lo so. Credo però che per consentire a ciascuno di noi di essere libero, i nostri cuori debbano essere morbidi.

(Trascrizione del discorso tenuto a Venezia il 18/6/99)

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kris2 Jiddu Krishnamurti

Sul morire…

“…per poter sperimentare la morte mentre siamo ancora vivi, dobbiamo abbandonare ogni sotterfugio mentale, ovvero tutto ciò che ci impedisce un’esperienza diretta.. Siamo plasmati dal passato, dalle abitudini, dalla tradizione, dagli schemi di vita; siamo invidia, gioia, angoscia, zelo, godimento; ognuno di noi è questo, ovvero il processo di continuità..
..ognuno è attaccato alle proprie opinioni, al proprio modo di pensare, ed ha paura che senza i suoi attaccamenti non sarebbe nulla; allora si identifica con la casa, la famiglia, il lavoro, gli ideali… ma quanti sono quelli capaci di porre fine a tale attaccamento e realizzare il distacco?

E’ necessario comprendere i processi del pensiero, poiché la comprensione di ciò che chiamiamo pensiero è la cessazione del tempo.. il pensiero, tramite un processo psicologico, crea il tempo; il tempo poi controlla e configura il nostro pensiero.. ..il senso di continuità è stato edificato dalla mente, quella mente che guida se stessa per mezzo di precisi schemi e che ha il potere di creare ogni sorta di illusione, lasciarsi intrappolare da tutto ciò mi sembra una scelta tanto inutile quanto priva di maturità..

..Non sappiamo neppure cos’è vivere, come potremo mai sapere cos’è la morte? Vivere e morire potrebbero essere la stessa cosa, e il fatto che le abbiamo separate potrebbe essere fonte di grande sofferenza.. Abbiamo separato la morte trattandola come un evento che accadrà alla fine della vita, tuttavia è sempre presente.. Avendo paura di quella cosa che chiamiamo morte l’abbiamo separata dalla vita, relegandole entrambi in compartimenti stagni, separati l’uno dall’altro da spazi immensi.. ..Una mente imprigionata in tale processo non riuscirà mai a comprendere, comprendere è libertà; ma tra noi sono ben pochi coloro che vogliono essere liberi.. ..lasciamo che l’oceano della vita e della morte sia così com’è.. ..l’io che ha goduto, sofferto e conosciuto, potrà continuare?

L’io esiste solo a causa dell’identificazione con la proprietà, con un nome, una famiglia, con successi e fallimenti, con tutto ciò che siamo stati e vogliamo essere. Siamo ciò con cui ci siamo identificati: è di questo che siamo fatti, e senza di questo non siamo. Vogliamo che tale identificazione con gli altri, con le cosa e le idee non abbia fine, persino dopo la morte; ma si tratta davvero di qualcosa di vivo? Oppure non è nient’altro che una massa di desideri contraddittori, di progetti, di successi, di frustrazioni, un groviglio in cui il dolore supera la gioia? ..

Meglio il conosciuto che il non conosciuto vero? Eppure il conosciuto è talmente piccolo, insignificante, limitante; il conosciuto è dolore, eppure si desidera che continui.. ..Ci affanniamo molto per sapere, quando cessa ogni tentativo di sapere, c’è ancora qualcosa che la mente non è riuscita ad afferrare e a far quadrare. Il non conosciuto è infinitamente più grande del conosciuto: il conosciuto non è che un’imbarcazione in  mezzo al mare del non conosciuto.. ..lasciamo che tutto scorra naturalmente.. ..la verità è assai strana: più la inseguiamo più ci sfugge. Non possiamo afferrarla in nessun modo, per efficace e astuto che sia; non possiamo imprigionarla nella rete del nostro pensiero.

Comprendetelo a fondo e lasciate andare tutto. Nel cammino della vita e della morte dobbiamo camminare da soli; è un viaggio durante il quale conoscenza, esperienza e memoria non possono offrire alcun conforto. La mente deve essere ripulita da tutto ciò che ha afferrato nel suo bisogno di trovare certezze; i suoi dèi e le sue virtù devono essere restituiti alle società che li hanno generati. Occorre raggiungere una solitudine completa e incontaminata…”

Jiddu Krishnamurti – frammenti liberamente estrapolati da: “On living and dying”
Fonte Lista Sadhana – http://it.groups.yahoo.com/group/lista_sadhana/

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gandalf20the20whites600x600PAULO COELHO
MANUALE DEL GUERRIERO DELLA LUCE –
TRADUZIONE DI RITA DESTI
EDIZIONI ASSAGGI BOMPIANI
………………………..

Un giorno, all’improvviso, il guerriero scopre di lottare senza lo stesso entusiasmo di prima. Continua a fare cio’ che faceva, ma sembra che ogni gesto abbia perduto il suo significato. In quel momento, egli ha una sola scelta: continuare a praticare il Buon Combattimento. Recita le sue preghiere per dovere, o per paura, o per qualsiasi altro motivo, ma non interrompe il suo cammino. Sa che l’angelo di Colui che lo ispira sta facendo un altro giro.

Il guerriero si mantiene concentrato sulla lotta, e persevera: anche quando tutto sembra inutile. Dopo un po’, l’angelo torna, e il semplice fruscio delle sue ali fara’ ritornare la gioia. Un guerriero della luce condivide con gli altri tutto cio’ che conosce del cammino. Chi aiuta, viene sempre aiutato, e ha bisogno di insegnare cio’ che ha appreso. Percio’, egli si siede intorno al fuoco e racconta com’e’ andata la giornata di lotta.

Un amico gli sussurra: “Perche’ parlare tanto apertamente della tua strategia? Non vedi che, comportandoti cosi’, corri il rischio di dover dividere le conquiste con altri?” Il guerriero si limita a sorridere, e non risponde. Sa che, se giungera’ alla fine del viaggio in un paradiso vuoto, la sua lotta non avra’ avuto alcun valore.

Il guerriero della luce ha appreso che Dio si serve della solitudine per insegnare la convivenza. Si serve della rabbia per mostrare l’infinito valore della pace. Si serve del tedio per sottolineare l’importanza dell’avventura e dell’abbandono. Dio si serve del silenzio per fornire un insegnamento sulla responsabilita’ delle parole. Si serve della stanchezza, perche’ si possa comprendere il valore del risveglio. Si serve della malattia per
sottolineare la benedizione della salute. Dio si serve del fuoco per impartire una lezione sull’acqua. Si serve della terra, perche’ si comprenda il valore dell’aria. Si serve della morte per mostrare l’importanza della vita.

Il guerriero della luce da’, prima che gli sia richiesto. Vedendo questo, alcuni compagni commentano: “Chi ha bisogno, chiede.” Ma il guerriero sa che c’e’ molta gente che non riesce – semplicemente non riesce – a chiedere aiuto.
Accanto a lui ci sono molti uomini dal cuore talmente fragile, che si impegnano in amori malsani; sono affamati di affetto, e si vergognano di mostrarlo. Il guerriero li riunisce intorno al fuoco, racconta delle storie, spartisce il suo cibo, scherza insieme a loro. Il giorno dopo, tutti si sentono meglio.

Coloro che guardano alla miseria con indifferenza sono i piu’ miserabili. Le corde che sono sempre in tensione finiscono per logorarsi. I guerrieri che si addestrano senza tregua perdono la spontaneita’ nella lotta. I cavalli che saltano di continuo gli ostacoli finiscono per spezzarsi una zampa. Gli archi che sono costantemente tesi non scagliano piu’ le frecce con la stessa forza.

Percio’, anche se potrebbe non essere dell’umore giusto, il guerriero della luce cerca di divertirsi con le piccole cose quotidiane. Il guerriero della luce presta ascolto a Lao Tzu, quando dice che dobbiamo distaccarci dall’idea dei giorni e delle ore, per rivolgere sempre piu’ attenzione al minuto.  Solo cosi’ riesce a fronteggiare taluni problemi, prima che si verifichino: prestando attenzione alle piccole cose, egli riesce a evitare le grandi catastrofi.
Ma, pensare alle piccole cose non significa pensare in tono minore. Una preoccupazione esagerata finisce per eliminare ogni traccia di gioia dalla vita. Il guerriero sa che un grande sogno e’ costituito da tante cose diverse, cosi’ come la luce del sole e’ l’insieme di milioni di raggi. Ci sono momenti in cui il cammino del guerriero attraversa periodi di routine. Allora egli adotta l’insegnamento di Nachman de Bratzlav: “Se non riesci a meditare, devi soltanto ripetere una semplice parola, perche’ questo fa bene all’anima. Non dire altro, limitati a ripetere la stessa parola senza fermarti, innumerevoli volte.
Essa finira’ per perdere il suo significato, acquistandone uno nuovo. Dio aprira’ le sue porte, e tu arriverai a usare questa semplice parola per esprimere tutto cio’ che vorresti.”

Quando e’ obbligato a ripetere il medesimo compito, il guerriero adotta questa tattica, e trasforma il proprio lavoro in preghiera. Un guerriero della luce non ha “certezze”, ma un cammino da seguire, al quale cerca di adattarsi in base al tempo.

In estate, lotta con equipaggiamenti e tecniche diversi da quelli impiegati in Inverno. Essendo tollerante, egli non giudica mai il mondo, utilizzando il concetto di “giusto” o “sbagliato”, bensi’ sulla base dell’atteggiamento piu’ adatto a quel determinato momento. Sa che anche i suoi compagni devono
adattarsi, e, quindi, non si sorprende quando essi cambiano atteggiamento. A ciascuno da’ il tempo necessario per giustificare le proprie azioni.

Ma, e’ molto giusto in caso di tradimento. Un guerriero siede intorno al fuoco con i suoi compagni. Essi trascorronp ore e ore accusandosi a vicenda, ma poi finiscono per dormire sotto la stessa tenda e per dimenticare le offese  pronunciate. Di tanto in tanto, nel gruppo arriva un elemento nuovo.  Poiche’
non ha ancora una storia in comune con gli altri, l’uomo mostra soltanto i suoi pregi, e alcuni lo vedono come un maestro. Ma il guerriero della luce non lo paragona mai ai vecchi compagni di battaglia. Lo straniero e’ il benvenuto, ma si fidera’ di lui solo quando avra’ conosciuto anche i suoi difetti.

Un guerriero della luce non entra mai in battaglia senza conoscere i limiti del suo alleato. Il guerriero della luce conosce una vecchia espressione popolare che dice: “Se il pentimento uccidesse… E sa che il pentimento uccide davvero: corrode lentamente l’anima di chi ha fatto qualcosa di sbagliato, e conduce
all’autodistruzione. Il guerriero non vuole morire in questa maniera. Quando agisce con perversita’, o cattiveria, poiche’ anch’egli e’ un uomo pieno di difetti, non si vergogna di chiedere perdono. Se gli e’ ancora possibile, concentra ogni suo sforzo per riparare al male che ha fatto. Se colui che ha colpito e’ morto, fa del bene a un estraneo, e offre questa buona intenzione all’anima di colui che ha ferito.

Un guerriero della luce non si pente, perche’ il pentimento uccide. Egli si umilia, e rimedia al male che ha causato. Tutti i guerrieri della luce hanno sentito la madre dire: “Mio figlio si comporta cosi’ perche’ ha perduto la testa, ma in fondo e’ una gran brava persona. Benche’ rispetti la madre, egli sa che non e’ cosi’. Non si colpevolizza per i suoi gesti avventati, e tanto meno passa la vita a perdonarsi per tutto cio’ che fa di sbagliato, poiche’ in questa maniera non correggera’ mai il proprio cammino. Per giudicare il risultato dei propri atti, si basa sul buon senso, e non sulle intenzioni che aveva nel compierli. Si assume la responsabilita’ di ogni sua azione, pur pagando un prezzo alto per gli errori.

Dice un vecchio proverbio arabo: “Dio giudica l’albero dai frutti, non dalle radici.”  Prima di prendere una decisione importante, come dichiarare una guerra, trasferirsi con i compagni in un’altra pianura, scegliere un campo da seminare, il guerriero si domanda: “Come incidera’ sulla quinta generazione dei miei
discendenti questo mio gesto?” Un guerriero ha coscienza che le azioni individuali comportano conseguenze che si prolungano per molto tempo, e deve sapere quale mondo sta lasciando alla sua quinta generazione.

“Non scatenare una tempesta in un bicchier d’acqua,” dice qualcuno al guerriero della luce, avvisandolo. Ma egli non enfatizza mai un momento difficile, e cerca sempre di mantenere la calma necessaria. Nel contempo, non giudica il dolore altrui. Un piccolo dettaglio – che non lo colpisce affatto – puo’ divenire
lo stoppino per scatenare la tempesta che covava nell’anima di un suo fratello. Il guerriero rispetta la sofferenza del prossimo, e non tenta di paragonarla alla propria. La coppa della sofferenza non ha la stessa misura per tutti. “La prima qualita’ del cammino spirituale e’ il coraggio,” sosteneva Gandhi . Il mondo sembra minaccioso e pericoloso ai codardi, che ricercano la sicurezza menzognera di una vita priva di grandi sfide, e si armano fino ai denti per difendere quello che credono di possedere. I codardi finiscono per costruire le grate della loro stessa prigione. Il guerriero della luce proietta il suo pensiero al di la’ dell’orizzonte. Sa che, se non fara’ niente per il mondo, nessun altro lo far.a’ Allora partecipa al Buon Combattimento e aiuta gli altri, anche senza comprendere appieno il motivo per cui lo fa. Il guerriero della luce legge con attenzione un testo che l’Anima del Mondo ha inviato a Chico Xavier: “Quando riesci a superare dei seri problemi di rapporto, non soffermarti sul ricordo dei momenti difficili, ma sulla gioia di avere attraversato anche questa prova della tua vita. Quando esci da un lungo periodo di convalescenza, dopo una malattia, non pensare alla sofferenza che e’ stato necessario affrontare, ma alla benedizione di Dio che ha consentito la tua guarigione.

“Per il resto della vita, serba nella memoria le cose belle che sono sorte nei momenti di difficolta’. Esse saranno una prova delle tue capacita’ e ti infonderanno fiducia dinanzi a qualsiasi ostacolo.” Il guerriero della luce si concentra sui piccoli miracoli della vita quotidiana. Se sa vedere cio’ che e’ bello, e’ perche’ ha la bellezza dentro di se’, giacche’ il mondo e’ì uno  specchio che rimanda a ogni uomo il riflesso del suo viso. Pur conoscendo i propri difetti e limiti, il guerriero fa il possibile per mantenere il buon umore nel momenti di crisi. In fin dei conti, il mondo sta facendo ogni sforzo per aiutarlo, quantunque tutto cio’ che lo circonda sembra affermare il contrario.

Esiste un residuo emotivo: esso viene prodotto nelle officine del pensiero. E’ formato dai dolori ormai passati, che adesso non sono piu’ di alcuna utilita’. E’costituito dai cauti provvedimenti che hanno avuto un’importanza in passato, ma che nel presente non servono a niente. Il guerriero ha, inoltre, i suoi
ricordi, ma riesce a separare quello che e’ utile da cio’ che non e’ necessario: egli si libera del proprio residuo emotivo. Dice un compagno: “Ma questo fa parte della mia storia. Perche’ devo abbandonare dei sentimenti che hanno segnato la mia esistenza?”

Il guerriero sorride, ma non cerca di provare cose che ormai non sente piu’. Sta cambiando, e vuole che i suoi sentimenti lo accompagnino. Dice il maestro al guerriero, quando lo vede depresso: “Tu non sei quello che sembri nei momenti di tristezza. Sei molto di piu’ “Mentre tanti sono partiti, per motivi che non comprenderemo mai, tu sei ancora qui. Perche’ mai Dio si e’ portato via uomini cosi’ incredibili, e ha lasciato te? “In questo momento, milioni di uomini hanno gia’ rinunciato. Non si infastidiscono, non piangono, non fanno piu’ niente. Si limitano ad aspettare che il tempo passi. Hanno perduto la capacita’ di reagire. Tu, pero’, sei triste. E cio’ dimostra che la tua anima e’ ancora viva.” A volte, nel pieno di una battaglia che sembra non avere fine, il guerriero ha un’idea e vince in pochi secondi. Allora pensa: “Perche’ ho sofferto per tanto tempo, in un combattimento che avrebbe potuto risolversi con la meta’ dell’energia che ho sprecato?” In verita’, ogni problema, una volta risolto, sembra molto semplice.

La grande vittoria, che oggi appare facile, e’ il risultato di una serie di piccoli successi che sono passati inosservati. Allora il guerriero capisce cio’ che e’ accaduto, e dorme tranquillo. Invec= e di colpevolizzarsi per il fatto di avere impiegato tanto tempo ad arrivare, gioisce sapendo che infine e’ giunto alla meta. Esistono due tipi di preghiera. Il primo e’ quello con cui si chiede che accadano determinate cose, tentando di suggerire a Dio cio’ che Egli deve fare. Al Creatore non si concede tempo, ne’ spazio per agire. Dio, che sa benissimo cio’ che e’ meglio per ciascuno, continua ad agire come Gli conviene.
E colui che prega rimane con la sensazione di non essere stato ascoltato. Il secondo tipo di preghiera e’ quello in cui, anche senza comprendere i cammini dell’Altissimo, l’uomo lascia che nella propria vita si compiano i disegni del Creatore. Implora che gli sia risparmiata la sofferenza, chiede gioia nel Buon Combattimento, ma mai – in nessun momento – dimentica di pronunciare la formula: “Sia fatta la Tua volonta’.” Il guerriero della luce prega in questa seconda maniera. Il guerriero sa che, in tutte le lingue, le parole piu’ importanti sono quelle piccole: “Si”, “Amore”, “Dio”. Sono parole che si pronunciano con
facilita’, e colmano giganteschi spazi vuoti.
Esiste tuttavia una parola, anch’essa molto piccola, che molti hanno  difficolta’a pronunciare: “No.” Chi non dice mai di no, si crede generoso, comprensivo, educato: perche’ il “no” porta con se la nomea di maledetto, egoista, poco spirituale. Il guerriero non cade in questa trappola. Ci sono momenti in cui, nel dire “si” agli altri, potrebbe darsi che, contemporaneamente, stia dicendo “no” = a se stesso. Percio’, non pronuncia mai un “si” con le labbra, se il suo cuore sta dicendo “no”. Sono questi i comandamenti ai quali nessun guerriero della luce puo’ obbedire:

Primo. Dio e’ sacrificio Soffri in questa vita e sarai felice nella prossima.

Secondo. Chi si diverte e’ un bambino.

Terzo. Gli altri sanno cio’ che e’ meglio per noi, perche’ hanno piu’ esperienza.

Quarto. Nostro dovere e’ rendere contenti gli altri. E’ necessario gratificarli, anche se cio’ comporta rinunce importanti.

Quinto. Non bisogna bere avidamente alla coppa della felicita’, altrimenti potrebbe piacerci. E non sempre l’avremo fra le mani.

Sesto. E’ necessario accettare tutti i castighi. Siamo colpevoli.

Settimo. La paura e’ un segnale di allarme. Non correremo rischi. Un folto gruppo di uomini si trova in mezzo alla strada e sbarra il cammino che conduce al Paradiso. Il puritano domanda: “Perche’, i peccatori?” E il moralista urla: “La prostituta vuole partecipare al banchetto!” Il custode dei valori sociali grida: “Come perdonare l’adultera, se ha peccato?” Il penitente si strappa le vesti: “Perche’ guarire un cieco che pensa solo alla propria malattia e non ringrazia neppure? L’asceta si straccia: “Tu lasci che la donna sparga sui tuoi capelli un olio prezioso! Perche’ non venderlo e comprare del cibo?”

Sorridendo, Gesu’ tiene la porta aperta. E i guerrieri della luce entrano, trascurando le urla isteriche. L’avversario e’ sapiente e scaltro. Appena puo’, afferra l’arma piu’ facile ed efficace: l’intrigo. Quando se ne serve, non ha bisogno di fare grandi sforzi: perche’ altri stanno lavorando per lui. Con parole male orientate, vengono distrutti mesi di dedizione, anni di ricerca dell’armonia. Sovente il guerriero della luce rimane vittima di questa trappola. Non sa da dove provenga il colpo, e non ha modo di dimostrare che l’intrigo e’ falso. L’intrigo non permette il diritto alla difesa: condanna senza processo.

Allora, egli sopporta le conseguenze e le punizioni commentate, poiche’ la parola ha un suo potere, e il guerriero lo sa. Ma soffre in silenzio, e non usa mai quell’arma per attaccare l’avversario. Un guerriero della luce non e’ vigliacco. “Dai allo sciocco mille intelligenze, ed egli non vorra’ null’altro se non la tua,” dice il proverbio arabo.

Quando il guerriero della luce comincia a piantare il suo giardino, nota che il vicino lo spia. A costui piace dare consigli su come seminare le azioni, raccogliere i pensieri, irrigare le conquiste. Se il guerriero prestera’ ascolto a cio’ che l’uomo sta dicendo, finira’ per fare un lavoro che non gli appartiene: il giardino a cui si sta dedicando derivera’ da un’idea del vicino. Ma un vero guerriero della luce sa che ogni giardino ha i propri misteri, che solo la mano paziente del giardiniere e’ capace di decifrare. Percio’ preferisce concentrarsi sul sole, sulla pioggia, sulle stagioni. Sa che lo sciocco che da’ consigli sul giardino altrui non sta badando alle proprie piante. Per lottare, e’ necessario tenere sempre gli occhi aperti. E avere al proprio fianco dei
compagni fedeli. Ma capita che, all’improvviso, quello che si batteva insieme al guerriero della luce diventi un suo avversario.

La prima reazione e’ di odio. Ma il guerriero sa che un combattente accecato e’ perduto nel cuore della battaglia. Allora cerca di ricordare le belle azioni compiute dall’antico alleato nel periodo in cui hanno convissuto. Tenta di comprendere che cosa lo abbia spinto al repentino cambio di atteggiamento,
quali ferite si siano accumulate nella sua anima. Cerca di scoprire che cosa abbia portato uno dei due a rinunciare al dialogo. “Nessuno e’ del tutto buono, o cattivo”: ecco cio’ che pensa il guerriero quando capisce di avere un nuovo avversario.

Un guerriero sa che i fini non giustificano i mezzi. Perche’ i fini non esistono: ci sono solo i mezzi. La vita lo trasporta dall’ignoto verso l’ignoto. Ogni minuto e’ rivestito di questo mistero appassionante: il guerriero non sa da dove viene, ne’ dove sta andando. Ma non e’ qui per caso. E la sorpresa lo riempie di gioia, i paesaggi che non conosce lo affascinano. Molte volte ha paura, ma questo fa parte della norma per un guerriero. Se egli pensasse solo alla meta, non riuscirebbe a prestare attenzione ai segnali disseminati lungo il cammino. Se si concentrasse su una singola domanda, perderebbe le varie risposte che gli stanno a fianco. Percio’ il guerriero si concede. Il guerriero sa che esiste il cosiddetto “effetto cascata”. Ha visto molto spesso qualcuno comportarsi in maniera sbagliata con chi non aveva il coraggio di reagire. Allora, per vigliaccheria e risentimento, questi ha riversato a propria rabbia su qualcun altro piu’ debole, che l’ha scaricata su un altro ancora, in una vera e propria catena d’infelicita’.

Nessuno conosce le conseguenze delle proprie crudelta’. Percio’ il guerriero e’ prudente nell’uso della spada, e accetta solo un avversario che sia degno di lui. Nei momenti di rabbia, prende a pugni la roccia e si ferisce la mano.
Alla fine la mano guarisce. Ma il bambino che ha finito per prenderle perche’ suo padre ha perso un combattimento sara’ marchiato per il resto della vita.
Quando arriva l’ordine di trasferimento, il guerriero guarda tutti gli amici che si e’ fatto durante il cammino.

Ad alcuni ha insegnato a udire le campane di un tempio sommerso, ad altri ha raccontato storie intorno al fuoco. Il suo cuore si rattrista, ma egli sa che la sua spada e’ sacra, e che deve obbedire agli ordini di Colui al quale ha offerto la sua lotta. Allora il guerriero della luce ringrazia i compagni di viaggio, trae un profondo respiro e va avanti, portando con se i ricordi di un viaggio indimenticabile.

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