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Archive for the ‘Personaggi e Maestri’ Category

001-77

Le Upanishad sono trattati di estensione variabile, appartenenti ad epoche diverse, in prosa e in versi, alcune miste, dedite a indirizzare l’aspirante alla verità trascendente il piano di realtà del grossolano attraverso la contemplazione o la stimolazione della buddhi (ragion pura) attraverso l’ascolto delle verità supreme che vertono quali siano l’origine e il destino dell’uomo, quale ragione regga le varie vicende dell’esistenza, quale sia il fondamento ultimo dell’universo e della vita.

Le Upanishad costituiscono la parte conclusiva dei Veda. In origine diverse migliaia, ne rimangono più di 200, benché‚ per tradizione, quelle più considerate  siano 108. La loro datazione è incerta: le più antiche dovrebbero risalire all’VIII e al VII secolo a.C., antecedenti all’era buddista; le più recenti al V o al IV secolo a.C.

Ma le Upanihsad veramente importanti e tipiche sono poco più d’una dozzina, sono denominate Upanisad antiche e medie oppure vediche, appartengono alle varie scuole che si rifanno alle Samhita vediche e quindi fanno parte della rivelazione, e risalgono a un periodo compreso, con tutta probabilità, tra il 700 e il 300 a. C.

Le Upanishad sono state composte da autori ispirati, ed appartengono alla letteratura rilevata o sruti (lett.: “ciò che è stato udito” ) al pari dei Veda, esse hanno un carattere religioso – culturale; tuttavia, a differenza di quelli, presentano tratti altamente speculativi. In effetti, tutta la filosofia indiana non è altro che una glossa e un commento alle Upanishad.

Il termine, nell’interpretazione che per lungo tempo ha goduto maggior fortuna e che s’attiene al significato più evidente (upa-nisad = sedersi vicino) sembra alludere al carattere esoterico dell’insegnamento, trasmesso dal maestro al discepolo che, avendone le qualificazioni, gli sedeva  vicino.

Chi consideri tuttavia la dottrina monistico-idealistica in cui sembra culminare il pensiero upanishadico, chi osservi il rivolgimento portato nella concezione della vita dal dogma del ciclo delle esistenze, che proprio nelle Upanisad s’afferma per non più abbandonare il suolo dell’India, chi valuti nella giusta misura la difficoltà di staccarsi dalla concezione mitica dell’universo e dal dominio più o meno esclusivo del rito e della magia per guardare con occhio spassionatamente limpido ai fatti della vita e della morte, dovrà riconoscere che nelle Upanisad, al di là degli innegabili apriorismi e delle sopravvivenze del passato, lo spirito umano ha lasciato una documentazione notevolissima d’un travaglio spirituale che cerca, propone e ancor dubita delle soluzioni proposte, che accetta e combina spregiudicatamente elementi e nozioni di varia origine, che per rappresentare la complessità dell’inconoscibile non esita ad ammettere contraddizioni e contrasti. E la validità non già delle risposte date, ma dell’atteggiamento assunto, è dimostrata dal fatto che la storia del pensiero indiano è incomprensibile ove si trascuri il periodo delle Upanisad antiche e medie.

Esaminando le tematiche delle Upanishad più importanti, ne emergerà la continuità di fondo, benché‚ non una visione unitaria o omogenea.

Nella Brihadaranyaka Upanishad è formulata una cosmologia primitiva. All’inizio c’era soltanto il nulla, il non – essere, dal quale si produsse l’universo. In ogni uomo alberga una scintilla del Brahman, l’energia cosmica: si tratta dell’atman, il principio dell’individualità o il sè personale ( di solito, erroneamente tradotto con “anima”; per quanto concerne la possibilità di definire “personale” l’atman). Viene postulata una corrispondenza intima tra il micro e il macrocosmo, sulla base di vari spunti vedici. Ogni creatura riceve qualcosa dal Brahman: l’incarnazione più completa di quest’energia è il brahmano, il sacerdote. In questa Upanishad si torna sulla questione delle caste. Tuttavia, nonostante l’evidente enfasi sulla casta brahmanica, nella Upanishad è un guerriero a istruire un sacerdote. Evidentemente alla classe dei Brahmani non era ancora stato assegnato il ruolo di primo piano che avrebbe avuto in seguito. Si dichiara che del Brahman non si può parlare. Nessuna determinazione verbale riuscirebbe a renderne la natura: “non così, non così” (neti neti): è l’unica espressione applicabile all’energia cosmica. Viene poi indicata l’identità tra il Brahman e l’atman, tra l’energia impersonale e l’identità personale (4, 4, 5).” tutto il mondo non è altro che l’atman. “L’atman è indistruttibile ed eterno. Questa cosmologia ha importanti risvolti etici. L’uomo dovrà prendere coscienza della propria identità autentica, per capire che il suo atman, la propria natura intima, contiene un principio universale. Egli rifuggirà dalle passioni, votandosi all’ascetismo. Ad un certo punto della propria evoluzione, infine, si lascerà dietro qualsiasi massima o norma etica: sarà libero sia dal male che dal bene. In questo stato d’animo non traccerà più alcuna distinzione tra sè e gli altri, rendendosi conto della perfetta identità tra il Brahman e l’atman. E non potrà più temere nulla: la sua vita sarà immortale, ormai, come quella del cosmo.

Anche nella Chandogya Upanishad, un membro della casta guerriera , cioè un principe, si rivedrà più perspicace dei suoi interlocutori brahmani. Il protagonista della Upanishad è il brahmano Uddalaka Aruni. Anche qui viene postulata una perfetta corrispondenza tra il micro e il macrocosmo: uno stesso fenomeno, il respiro pervade ogni ambito dell’universo, e continua a sussistere in ogni istante, persino nel sonno profondo. Con alcune varianti, ci si riallaccia alla cosmologia della Briahadaranyaka Upanishad: dal non – essere deriva l’essere; in questo caso, si passa poi alla produzione di un uovo cosmico, le cui metà compongono l’universo. Tuttavia, in altre sezioni della Upanishad questa dottrina viennegata: “com’è possibile che dal non – essere sia sorto l’essere?”. Ciò attesta la presenza di alcune incrostazioni, quindi l’apporto di vari autori alla redazione dell’opera. Sul piano etico, si ammette la rinascita. In base alle azioni compiute, si tornerà in altre spoglie sulla terra: nelle tre caste ariane, nei casi di buona condotta; come animali spregevoli o come intoccabili ( ” fuori casta ” o candala, nei casi di malvagità (5, 10, 7).

Al punto culminante della Upanishad, Uddalaka si rivolge al figlio, ammonendolo: ” Quello sei tu, Cvetaketu “. ” Quello ” è l’atman, il principio individuale che corrisponde al Brahman, e si cela in ogni entità. In questo modo, il figlio apprende la propria perfezione. E` l’atman che permette ad un seme di produrre un grande albero. Esso è un’essenza sottile, una forza invisibile che consente ad ogni essere di realizzare la propria natura. E` il respiro vitale, che infonde energia alle creature. in ultima analisi, è il Brahman: il mio Sè è il Sè del cosmo. Bisogna cercare dentro di sè la propria matrice, una scintilla energetica che ospitiamo in un piccolo spazio vuoto del cuore. Se vi si riesce, aiutandosi con la meditazione, i sacrifici e lo studio dei Veda, non ci si ammalerà più, nè si soffrirà o si morirà. Si entrerà nel mondo del Brahman, per non far più ritorno sulla terra . Il ciclo delle rinascite viene interrotto . Un’esistenza eterna attende l’atman, nel suo amplesso con il Brahman, che è la sua stessa fonte.

Nella Taittiriya Upanishad viene ripreso l’assunto dell’identità Brahman/atman. Si è inoltre convinti che nella sillaba om si celi l’essenza del Brahman.

Nella Kena Upanishad si dichiara che il Brahman non può essere insegnato, nè pensato: nè chi crede di conoscerlo, nè chi crede di non conoscerlo coglie nel segno.

Nella Isà Upanishad si coltivano tendenze teistiche, accennando ad un ” Signore ” (Ica). Si raccomanda di abolire la mentalità dualistica: solo così, ad un certo punto, si capirà che nell’alto dei cieli c’è soltanto il proprio Io. La distinzione tra noi e gli altri viene invalidata. A quel punto, abbandonando la conoscenza e l’ignoranza, si attingerà l’immortalità.

Nella Katha Upanishad si narra dell’incontro tra Naciketas, il primo uomo che morì, e Yama, il Dio dei morti. “Dopo la morte, l’uomo esiste ancora o no?” E` questa la domanda angosciante che Naciketas pone al Dio della morte. Ma non non otterrà una vera risposta: Yama si limita a dirgli che l’atman è immortale ed eterna (2, 5, 13).

Nella Mundaka Upanishad vengono ammessi due ambiti della conoscenza. Da un lato, c’è il campo delle scienze inferiori: lo studio dei Veda, l’astronomia, la fonetica, la ritualistica, la grammatica, la metrica e l’etimologia. Dall’altro l’c’è la scienza superiore, il cui oggetto è la conoscenza del Brahman(1, 1, 5).

Nella Mandukga Upanishad si parla di quattro stati di coscienza o piani di realtà: vaicvanara, stato di veglia; Taijasa, stato onirico; prajnà, stato del sonno profondo; turiya, stato indefinibile. Nel primo la conoscenza dell’adepto si fonda sul pensiero dualistico e sulle distinzioni, richiamandosi agli oggetti sensibili. Nel secondo si volge invece all’interiorità, cioè agli oggetti del sogno. Nel terzo l’adepto non vede più alcuna immagine, quindi può rinunciare ad effettuare la distinzione tra soggetto ed oggetto. Nel quarto, infine, egli non dipende più da alcunché, all’infuori di sè stesso: ha realizzato la perfetta coincidenza tra il Brahmane l’atman. Ormai coltiva una consapevolezza non – duale, evitando di riferirsi alle cose esteriori e a quelle interiori .

La Cvetacvatara Upanishad, infine, è tra le più recenti delle composizioni antiche. Nel Brahman è insita una trinità: Dio, atman e ” natura ” (prakriti o cakti). Dio è il Signore del mondo, Colui che lo crea e lo distrugge. A volte è chiamato Rudra; a volte, Civà. La natura è illusoria: nient’altro che il prodotto di un gioco di prestigio del mago divino. Essa appare in un certo modo, ma non è in quel modo. L’atman è il sè individuale: da un lato, un elemento personale; dall’altro, una componente eterna del Brahman imperituro. Colui che, attraverso le opportune pratiche yogiche, scoprirà che Dio abita nel suo stesso cuore, otterrà la liberazione. Il suo atman sarà riassorbito nel Brahman. Anzich‚ sulla conoscenza, qui si insiste sulla devozione (bhati) nei confronti del Signore. Questa Upanishad si discosta, per grandi linee dalle altre: influenzerà molto la religiosità della massa. E non soltanto la speculazione filosofica. Nelle varie Upanishad s’insiste sull’autorealizzazione, per rifiutare, o perlomeno ridimensionare, l’importanza dei sacrifici vedici. Si tende alla liberazione (moksha), un obiettivo che è possibile raggiungere soltanto uscendo dal samsara, il siclo delle nascite e delle morti. Ogni azione produce un frutto: è il principio basilare della legge del karma , che determina le modalità delle future reincarnazioni. Attraverso la condotta ottimale, si deve cercare di spezzare il ciclo: a quel punto, l’atman sussisterà in eterno , inglobato nel Brahman. E` una liberazione, in positivo, dunque, ben diversa da quella di un certo buddhismo, per il quale l’uscita dal samsara comporterebbe l’estinzione eterna.

(Tratto da La Filosofia Indiana – Leonardo Arena – Edizioni Newton &
Upanishad a cura di Carlo della Casa – Edizioni Utet)

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001-76

Lo scopo di vivere la separazione
non è quello di riuscire a ritrovare l’unità,
ma quello di capire che non esiste separazione.
(Neale Donald WalshConversazioni con Dio)

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Neale Donald Walsch è un messaggero spirituale dei nostri giorni le cui parole continuano a toccare il mondo in maniera molto profonda.

“Qualche anno fa iniziai a ricevere delle risposte alle mie domande sull’abbondanza, sul denaro e su ciò che molti chiamano il giusto modo di vivere. Credo che provenissero direttamente da Dio. Ricevendole, ne restai così impressionato che decisi di scriverle”
Neale Donald Walsh
Conversazioni con Dio

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siddharta

“Rifletteva Siddharta nel suo lento cammino. Stabilì che non era più un giovinetto, ma era diventato un uomo. Stabilì che una cosa l’aveva abbandonato, così come il serpente viene abbandonato dalla sua vecchia pelle, che una cosa non era più presente in lui, che l’aveva accompagnato durante tutta la sua giovinezza, e gli era appartenuta: il desiderio di avere maestri e di conoscere dottrine. L’ultimo maestro che gli era apparso sulla strada, il sommo e sapientissimo maestro, il più santo di tutti, il Buddha, anche questo egli l’aveva abbandonato, aveva dovuto separarsi da lui, non aveva potuto accogliere la sua dottrina.

Sempre più lento andava il pensieroso e si chiedeva frattanto: <<Ma che è dunque ciò che avevi voluto apprendere dalle dottrine e dai maestri, e che essi, pur avendoti rivelato tante cose, non sono riusciti a insegnarti?>>. Ed egli trovò: <<L’Io era ciò di cui volevo apprendere il senso e l’essenza. L’Io era, ciò di cui volevo liberarmi, ciò che volevo superare. Ma non potevo superarlo, potevo solo ingannarlo, potevo soltanto fuggire o nascondermi davanti a lui. In verità, nessuna cosa al mondo ha tanto occupato i miei pensieri come questo mio Io, questo enigma ch’io vivo, d’essere uno, distinto e separato da tutti gli altri, d’essere Siddharta! E su nessuna cosa al mondo so tanto poco quanto su di me, Siddharta!>>

Colpito da questo pensiero s’arrestò improvvisamente nel suo lentocammino meditativo, e tosto da questo pensiero ne balzò fuori un altro, che suonava: <<Che io non sappia nulla di me, che Siddharta mi sia rimasto così estraneo e sconosciuto, questo dipende da una causa fondamentale, una sola: io avevo paura di me, prendevo la fuga davanti a me stesso! L’ Atman cercavo, Brahma cercavo, e volevo smembrare e scortecciare il mio Io, per trovare nella sua sconosciuta profondità il nocciolo di tutte le corteccie, l’Atman, la vita, il divino, l’assoluto. Ma proprio io, intanto, andavo perduto a me stesso>>.

Siddharta schiuse gli occhi e si guardò intorno, un sorriso gli illuminò il volto, e un profondo sentimento, come di risveglio da lunghi sogni, lo percorse fino alla punta dei piedi. E appena si rimise in cammino, correva in fretta, come un uomo che sa quel che ha da fare.

<<Oh!>> pensava respirando profondamente <<ora Siddharta non me lo voglio lasciare scappare! Basta! Basta cominciare il mio pensiero e la mia vita con l’Atman e col dolore del mondo! Basta! Uccidermi e smembrarmi, per scoprire il segreto dietro le rovine! Non sarà più il Yoga-Veda a istruirmi, né l’Atharva-Veda, né gli asceti, né alcuna dottrina. Dal mio stesso Io voglio andare a scuola, voglio conoscermi, voglio svelare quel mistero che ha nome Siddharta.>>

Si guardò attorno come se vedesse per la prima volta il mondo. Bello era il mondo, variopinto misterioso era il mondo! Qui era azzurro, là giallo, più oltre verde, il cielo pareva fluire lentamente come i fiumi, immobili stavano il bosco e la montagna, tutto bello, tutto enigmatico e magico, e in mezzo v’era lui, Siddharta, il risvegliato, sulla strada che conduce a se stesso. Tutto ciò, tutto questo giallo e azzurro, fiume e bosco penetrava per la prima volta attraverso la vista in Siddharta, non era più l’incantesimo di Mara, non era più il velo di Maya, non era più insensata e accidentale molteplicità del mondo delle apparenze, spregevole agli occhi del Brahmino, che, tutto dedito ai suoi profondi pensieri, scarta la molteplicità e solo dell’unità va in cerca. L’azzurro era azzurro, il fiume era fiume, e anche se nell’azzurro e nel fiume vivevano nascosti come in Siddharta l’uno e il divino, tale era appunto la natura e il senso del divino, d’esser qui giallo, là azzurro, là cielo, là bvosco e qui Siddharta. Il senso e l’essenza delle cose erano in qualche cosa oltre e dietro loro, ma anche nelle cose stesse, in tutto.

<<Come sono stato sordo e ottuso!>> pensava, e camminava intanto rapidamente. <<Qand’uno legge uno scritto di cui vuol conoscere il senso, non ne disprezza i segni e le lettere, né li chiama illusione, accidente e corteccia senza valore, bensì li decifra, li studia e li ama, lettera per lettera. Io invece, io che volevo leggere il libro del mondo e il libro del mio proprio Io, ho disprezzato i segni e le lettere, a favore di un significato congetturato in precedenza, ho chiamato illusione il mondo delle apparenze, ho chiamato il mio occhio e la mia lingua fenomeni accidentali e senza valore. No, tutto questo è finito, ora son desto, mi sono risvegliato alla realtà e oggi nasco per la prima volta.”

(da Siddharta di Hemann Hesse)
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Il libro Siddharta – qui
Il racconto Siddharta in formato audio MP3 – qui

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Tratto da: Insegnamenti di Tenzin Palmo – Monaca Buddhista

Una mente che è ossessionata dal sé,
che è controllata dall’Io relativo è una mente rigida,
critica e prevenuta…
una mente realmente illuminata non discriminerebbe.

Sua Santità il Dalai Lama incontra gente tutti i giorni – nuovi esuli giunti dal Tibet  con storie disumane sulla loro sofferenza e quella delle proprie famiglie e delle loro comunità. Deve ascoltare continuamente questi racconti. E’il Leader del Tibet, tuttavia non può fare nulla, provate ad immaginarne la sofferenza. Inoltre, essendo considerato uomo simbolo di pace, è contattato da altre associazioni e comunità umanitarie in tutto il mondo. Ogni giorno ascolta storie strazianti da ogni parte del mondo. Sua Santità è continuamente circondato non solo da persone che arrivano dal Tibet ma anche dall’India e da tutto il mondo, molti  dei quali scaricano la propria sofferenza nel suo grembo, così lui si preoccupa sempre dei problemi degli altri. Ma è infelice? Se gli racconteremo qualcosa di triste, piangerà perchè se ne preoccupa sinceramente. Ma un minuto dopo, riderà nuovamente! Guardate i suoi occhi – sono raggianti. Nella maggior parte delle sue foto, il Dalai Lama sorride.

Una mente che è ossessionata dal sé, che è controllata dall’Io relativo – cosa gradisce e cosa no, opinioni, pregiudizi e idee di come le cose e le persone dovrebbero o non dovrebbero essere – è una mente rigida, critica e prevenuta. La possediamo tutti. Assorbiamo i pregiudizi dal latte materno. Anche le persone che si sono ritirate dalla società hanno i loro forti pregiudizi. Sono spesso i più rigidi di tutti. Anche le persone che appartengono a società alternative, hanno le proprie opinioni, giudizi e standard! Non sono libere.

La nostra mente è molto condizionata. In un certo senso, finché non saremo totalmente illuminati, è impossibile avere una mente incondizionata  perché questo è il modo in cui pensiamo. Dovremmo però essere coscienti del fatto che siamo molto critici e abbiamo preconcetti su ogni cosa. Tutti hanno le proprie opinioni. Pensiamo: “Questa è la mia opinione”, ma di solito non lo è. E’ l’ opinione generale dei media o di quel programma che abbiamo visto la sera prima alla tv che è stato molto abilmente manovrato in modo tale da indurci a pensare nello stesso modo,  oppure è il punto di vista del gruppo specifico con cui usciamo. Comunque sia, la consideriamo come un’opinione esclusivamente nostra. Ce la incolliamo addosso e pensiamo che sia la verità e qualunque altro punto di vista sia errato. Dopo qualche anno, l’opinione comune cambia e tutti la seguono. E’ piuttosto interessante! Se siamo sufficientemente avanti con gli anni possiamo osservare questo cambiamento in essere.

Quando siamo giovani immaginiamo che ciò che pensiamo sia l’unico modo di vedere le cose e chiunque la pensi in altro modo sia matto. La tendenza in voga è la verità assoluta, è l’affermazione ultima, e tutto ciò che si sosteneva prima è antiquato e stupido. Dopo un breve periodo, tutto cambia nuovamente e il nostro stile attuale è diventato fuori moda! Tutti voi giovani – voi dovete solamente aspettare! Il modo in cui vi vestite oggi, vi farà ridere fra dieci anni. Quando guarderete le vostre foto, penserete: ” Ero veramente così a quella età? – per l’amor del cielo!” Ma a quel tempo era il massimo della bellezza.

Siamo tutti prevenuti, influenzabili e inclini alle opinioni ed ai giudizi, la maggior parte dei quali sono insensati, la maggior parte dei quali abbiamo ereditato dalla nostra famiglia o dai nostri contatti sociali o dai libri che leggiamo o dai programmi televisivi che guardiamo.

Pochi sono stati attentamente esaminati alla luce della ragione e della comprensione, ma quando sosteniamo un opinione, saremmo disposti a morirne. La gente muore a causa delle proprie idee ogni giorno, non che siano idee brillanti, anzi, molto spesso sono idee stupide. Queste credenze, opinioni e giudizi colorano tutto ciò che vediamo. Non sono semplicemente innocue ed inoffensive..

Alcune opinioni sono piuttosto innocue – come prendere il tè con o senza zucchero, come decidere se dover mangiare solo cereali o frutta. Queste potrebbero avere degli effetti sul nostro corpo ma sono fondamentalmente innocue. Esistono però dei pregiudizi che sono molto dannosi per la nostra mente e per la società. Ne fanno parte ovviamente i pregiudizi di natura religiosa e razzista. Hanno causato tali danni nel nostro mondo. Milioni di persone perdono la vita perchè non credono in ciò in cui noi crediamo o perché appartengono ad un’altra razza o per una qualunque altra ragione. Non sono persone cattive ma credono che “se non credi in ciò in cui io credo, ti meriti di morire”.

Per cui, la domanda sulle nostre opinioni e credenze non è una domanda da poco. La maggior parte di esse sono infatti totalmente prive di fondamento. Da dove provengono? Le abbiamo esaminate bene? Ne abbiamo parlato razionalmente con persone che hanno punti di vista diversi? Abbiamo letto libri che trattano altri modi di pensare? Di solito quando crediamo in qualcosa, tendiamo a leggere solo libri che rafforzino il nostro credo. Non leggiamo libri nè guardiamo programmi che ci mostrino un punto di vista diverso. Se osserviamo qualcuno che ci dice una qualunque cosa che non condividiamo, lo osserveremo con una mente prevenuta. E’ molto interessante osservare quella mente, perchè filtriamo continuamente ogni esperienza e anche questo ci aliena da ciò che accade attorno a noi.


Dobbiamo realizzare un modo di vita
che ci mostri la strada che ci riporti verso casa,
verso la nostra vera natura.

Dunque, cosa dobbiamo fare? Non possiamo vivere senza opinioni e idee mentre siamo ancora in uno stato di coscienza non illuminata. Per il semplice fatto di essere una monaca buddista dimostro di avere mie opinioni e credenze! Dobbiamo capire che queste sono solo credenze –  sono semplici opinioni. Di per sé non hanno valore di verità assolute. Sono solamente idee e giudizi che possono cambiare. Persistono alcune idee in cui ci rispecchiamo tutti da millenni ma che dovrebbero decisamente essere ri-esaminate. Certe qualità che ammiriamo da sempre (che potrebbero essere o non essere ammirevoli) dovrebbero essere esaminate con nuovi occhi, anche se sono condivise da tempo.

La cosa importante è di non identificarsi con i propri pensieri e sentimenti, ma capire che pensieri ed opinioni sono solamente fattori mentali. Anche un sistema di credenze in sé stesso è una creazione mentale. Il Buddha, parlando del Dharma, ha detto: “Questa è una zattera, una barca. Ti porta da questa sponda della realtà relativa a quella della realtà assoluta”. Ora mentre siamo nel bel mezzo della corrente, saremmo degli sciocchi ad abbandonare la zattera, ma quando avremmo raggiunto l’altra sponda, sarebbe ugualmente stupido caricarci la zattera sulle spalle e portarcela a spasso per rispetto. Quando avremo raggiunto l’altra sponda, non avremo più necessita della zattera. Il Dharma è solo un mezzo; una via, ma non è la meta.

Tutti i sistemi di credenze e le religioni sono relative. In se stesse, non sono la verità ma possono aiutarci a realizzare la verità. Senza queste sarebbe molto difficile realizzarsi spiritualmente. Riusciremmo ad averne un flash, ma rendere stabile quella esperienza sarebbe piuttosto difficile senza un qualche tipo di disciplina spirituale. Anche le più nobili ed elevate opinioni, idee e giudizi devono avere una fine. Nel frattempo dovremmo capire che tutti i nostri pregiudizi, preconcetti ed opinioni dovrebbero essere considerati come semplici fenomeni passeggeri. Non posseggono un valore universale intrinseco, sono solo stati mentali e non sono né  ‘io’ né ‘mio’.

Noi tutti crediamo che una mente veramente illuminata non discriminerebbe. Sappiamo che un maestro che ha acquisito saggezza e compassione genuina avrebbe un cuore totalmente aperto e accetterebbe tutti quanti. Che senso avrebbe un maestro illuminato se dicesse: si accetto questa persona ,ma non quell’altra? E’ inconcepibile il solo immaginarlo! Perciò, più chiudiamo il nostro cuore ad alcuni strati della società, ad alcune religioni o razze e più ci allontaniamo dal realizzare la nostra vera natura di esseri illuminati. Più ci sentiamo rigidi e prevenuti e più saremo imprigionati nei nostri piaceri e  dispiaceri, allontanandoci sempre più da uno stato illuminato, perché uno stato illuminato non è discriminante.

Ritorniamo alla domanda sull’Io. L’Io ci porta fuori strada. In una società come la nostra che si basa fortemente sulla gratificazione personale, ci allontaniamo dal sentiero della verità. Ecco perchè le persone si sentono così frequentemente vuote dentro e perse. Dobbiamo realizzare un modo di vita che ci mostri la strada che ci riporti verso casa, verso la nostra vera natura, cosicché da vivere assecondando la nostra vera natura e non il nostro falso Io.

Secondo il Dharma ci sono due modi per farlo: un primo modo è quello dell’introspezione profonda, dell’apprendere un modo per calmare la mente, di focalizzarla su un punto. Poi osservando al vera natura della mente, saremo in grado di distinguere tra ciò che è falso e ciò che è vero. In questo modo possiamo iniziare ad abbandonare tutto ciò in cui falsamente ci identifichiamo, soprattutto il nostro identificarci fortemente con l’Io. In contemporanea potremo incominciare ad aprirci verso gli altri per mezzo della generosità. Non solo generosità nel dare beni materiali, ma anche dedicando del tempo, offrendo comprensione, dando spazio agli altri, esserci quando ci hanno bisogno. Quando le cose non vanno come sogniamo e  le persone non ci comportano come vorremmo, se non reagiamo con rabbia, allora noi coltiviamo il non-giudizio, l’apertura mentale e la pazienza, la comprensione e tolleranza. Impariamo gradualmente ad accettare le cose e sopportare le difficoltà della vita che si presentano sul nostro cammino, quando le usiamo abilmente invece di reagire negativamente, infuriandoci. Sviluppiamo la gentilezza – ciò che il Dalai Lama definisce un cuore buono –  un cuore che non si prende cura solo di se stesso ma degli altri.

Ci sono persone che si prendono a cuore la sorte degli animali selvatici, degli alberi del nostro ambiente. E’ meraviglioso! Ma a volte queste stesse persone sono maleducate verso i propri genitori e causano loro sofferenza e preoccupazione. Dobbiamo iniziare da dove siamo e con chi siamo. Iniziare dai nostri genitori, dai nostri compagni, dai nostri figli e colleghi. Rendiamoli felici! Praticate la gentilezza, la generosità, l’amore, la tolleranza con chi vi sta vicino, con chi lavorate, con le persone che incontrate. Cercate semplicemente di essere presente per loro, essere gentili nei loro confronti, pensate che anche loro vogliono essere felici. Cercate di non essere cause di infelicità per nessuno. Cercate di rendere le persone un po’ più felici; un sorriso, una parola gentile possono essere di grande aiuto. Smettila di essere così assorbiti da voi stessi. Pensate agli altri. Ciò che noi vogliamo non ha veramente tutta quella grande importanza.

Di solito cerchiamo così disperatamente di trovare la nostra felicità soddisfacendo ciò che vogliamo per noi stessi, che smettiamo di pensare a ciò che gli altri desiderano e a come renderli felici. L’ironia sta nel fatto che se pensassimo maggiormente agli altri invece che a noi stessi, noi stessi diventeremmo felici. Ci sveglieremmo un giorno e ci renderemmo conto di star bene senza nemmeno saperne il motivo. E’ uno dei paradossi: meno pensiamo a noi stessi, più pensiamo ad altri e più saremo felice. Più saremo ossessionati dalla nostra felicità senza preoccuparci minimamente degli altri e  più infelici renderemo noi stessi e tutti quello che ci circondano.

Ci sono così tante cose che possiamo fare. Prima di tutto iniziamo con il cercare di rendere felice chi ci sta vicino. Questa è la nostra sfida! E’ molto più facile sedersi e pensare “Possano tutti gli esseri in ogni luogo stare bene ed essere felici!”. Com’è possibile che quando pensiamo a quei cari canguri, opossum e wallaby che saltellano, gli occhi ci si riempiono di lacrime ma quando nostra madre ci chiede di lavare i piatti quando noi avevamo programmato di uscire, noi ci arrabbiamo? Anche nostra madre è un essere senziente, il nostro compagno è un essere senziente, i nostri figli sono esseri senzienti e lo sono davanti ai nostri occhi. È a loro che dobbiamo augurare di stare bene e di essere felici.

Secondo la tradizione tibetana, quando si medita su tutti gli esseri senzienti, nostro padre siede alla nostra destra, nostra madre alla nostra sinistra e i nostri nemici si trovano di fronte a noi. Poniamo tutte queste persone che non amiamo proprio di fronte a noi, seguiti poi dai nostri famigliari e amici. Questo è molto utile perchè ci ricorda che non ci sono solo esseri senzienti qualunque al mondo – quelle piccole macchie all’orizzonte – quelli che contano veramente sono le persone con cui abbiamo a che fare in questo momento. Sono le persone con cui stiamo parlando – persone che frequentiamo o con le quali abbiamo un legame karmico. Che queste persone ci piacciano o no, sono essere senzienti che desiderano essere felici ed è nostra responsabilità renderli felici.

Ritorniamo al primo argomento che abbiamo trattato e cioè il senso di connessione profonda con la famiglia, la società e poi con la nostra cultura. Questo è molto importante. Dobbiamo trovare un equilibrio fra l’essere totalmente soggetti alle restrizioni parentali e sociali e l’essere talmente liberi da non essere più legati a niente. Per fare ciò è necessario  trovare un centro all’interno del nostro essere. Solo allora potremo iniziare ad irradiare gli esseri che ci sono vicini. Non ci sentiremo più soli  perchè sapremo che ad un livello più profondo c’è una connessione tra noi e questi esseri. Non ci preoccuperemo più di cosa la gente possa dire sul nostro conto; saremo unicamente concentrati su come essere di beneficio agli altri esseri.

La società è diventata talmente distorta. Non ci dà ciò che ci aveva promesso. Non ci dà la felicità eterna o la semplice gioia. Ci causa invece un senso di disperazione, separazione, frustrazione, un desiderio insaziabile ed una grande vuoto dentro che non può essere mai colmato. Molti hanno la sensazione che niente abbia più un senso e si abbandona completamente alla disperazione. C’e così tanta depressione – guardate quante persone sono in cura con il Prozac. I tibetani non ne hanno nemmeno mai sentito parlare di cose come il Prozac.

Ci sono così tante cose che possiamo fare.
Prima di tutto iniziamo con il cercare
di rendere felice chi ci sta vicino.
Questa è la nostra sfida.

Dunque spetta a noi. Nessuno può farlo per noi. Siamo tutti responsabili delle nostre vite, di trovare il centro delle nostre vite e di orientarle verso la giusta strada. Ci sono i metodi per farlo ma solo noi possiamo applicarli. Quando c’è chiarezza nella nostra mente, quando vediamo veramente le cose con chiarezza, allora ogni cosa quadra. Allora diventa ovvio ciò di cui abbiamo bisogno. Ma nessuno può farlo al posto nostro. E’ come nuotare contro corrente. La società segue la corrente verso le paludi, scorre verso le terre deserte della disperazione. Se seguiamo quella direzione, quello sarà il luogo dove naufragheremo. Per cui dobbiamo nuotare contro corrente anche se è molto faticoso. Andremo nella direzione opposta a quella seguita da tutti ma stranamente questo non ci alienerà.

In qualche modo, una volta che abbiamo trovato un centro all’interno di noi stessi, ci sentiremo connessi a tutti gli esseri che ci circondano, intimamente legati nel profondo. Quando siamo in grado di indirizzare la nostra vita verso la giusta direzione, allora potremo essere d’aiuto per essere di guida anche agli altri. Attrarremo persone con una mente simile alla nostra che stanno iniziando a porsi domande sull’ethos (insieme delle aspirazioni, principi e valori della società). Presto potremo gioire della collaborazione e dell’amicizia di molti simili.

Il Buddha lodava molto l’amicizia. C’è un dialogo curioso nei Sutra dove Ananda, il servitore del Buddha, gli dice: “Penso che le buone amicizie siano metà del cammino spirituale” e il Buddha risponde: “Non dirlo, Ananda. Le buone amicizie sono l’intero cammino spirituale”. L’amicizia con esseri senzienti che ci sono di sostegno, comprensivi ed utili è molto importante. Nella nostra vita mentre seguiamo questo nuovo cammino spirituale, queste persone ci verranno incontro. Saranno attirate come magneti.

Domande:

D: Ho una domanda sull’uso della parola “mezzi di comunicazione”. Hai usato l’espediente della generalizzazione  con riferimento ai mezzi di comunicazione come forze tendenzialmente negativa. Mi domando comunque se il termine “mezzi di comunicazione pubblicitaria” potrebbe essere una buona aggiunta a quello poiché il fine dei media di per sé non è esclusivamente di guidare le persone lontano dal “seguire il flusso contro corrente”:  ci sono per esempio molte esperienze mediatiche che ti conducono ad una realizzazione.

R: Naturalmente, questo è vero. Per esempio nel giornalismo ed in televisione, ho visto parecchie cose molto belle, fonte d’ispirazione e utili. Ma la tendenza generale – un buon 90%, 95% dei mezzi di comunicazione – si basa sul promulgare questa coscienza consumistica. Sicuramente al loro interno ci sono persone buone, responsabili e dedicate che scrivono e producono cose splendide ma questi tendono ad essere travolti dalla valanga di tutte le altre cose che la gente vende per la maggiore. Ecco il problema! Accendi la tele e la maggior parte dei suoi programmi è incredibile spazzatura! Penso che una persona lo possa comprende meglio se viene dal di fuori. Non abbiamo una televisione in monastero in India e non vado al cinema, non ascolto la radio e di solito non leggo nemmeno i giornali. Per questo non siamo inondati ogni giorno dai mass media.  Il provenire da un luogo del genere, ci permette di vedere chiaramente. Siamo allora in grado di capire quanto sia spaventoso lo standard e le menzogne che sono propinate al pubblico in generale.

D: Una delle cose più difficili nel mio lavoro è di cercare di staccarsi dal pensiero rivolto verso a come le persone si comportano nei confronti del resto del mondo e ritornare alle origini. Ma questo processo sembra non avere mai fine. Poi improvvisamente, trovi una qualche causa e ti sale una rabbia incredibile: le persone oppongono resistenza. Percepiscono che i loro problemi, le loro idee sono così vere e così reali.

R: Sono sicura ci siano tante persone di quel genere. Dobbiamo solo stabilire un contatto. Ci aggrappiamo ai nostri pregiudizi, alle nostre idee e opinioni, pensiamo che siano ‘me’ e ‘il mio’, sostengono l’Io. Tuttavia, se eliminiamo le opinioni ed i giudizi dell’Io, dov’è l’Io? Perchè quello è ciò che sono – sono una persona che crede in questo e quello e quando demoliamo questo e quello, non abbiamo nessun altro luogo dove stare. Per questo la gente le difende a spada tratta. Perciò, è molto importante, come dicevo prima, ritornare alle origini, ricominciare dal punto d’inizio e cercare di aiutare le persone a seguire un’altra direzione.
(Insegnamento di Tenzin Palmo)

Tenzin Palmo
E” una donna inglese che ha vissuto per dodici anni in una grotta in solitudine e si e’ dedicata alla pratica spirituale  e alla meditazione….e’ diventata monaca buddhista ed h aaperto un monastero per donne in
India….
il sito:

http://tenzinpalmo.com/tenzin_palmo/biography.htm

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Il testo seguente è tratto da
“Lin Chi Lu – Raccolta dei detti del Maestro Ch’an Lin Chi I-Hsuan [Rinzai]”,
traduzione e commento di Engaku Taino.

lin-chiIl Buddhismo è nato in India il VI secolo avanti Cristo ed è solo all’inizio della nostra era che si è diffuso nel resto dell’Asia centrale ed orientale, e segnatamente in Cina. L’introduzione di questa pianta straniera nel suolo cinese, le modalità della sua acclimatazione, gli adattamenti, gli innesti che l’hanno trasformata, costituiscono uno dei fenomeni di acculturazione più rimarchevoli che si possano osservare.

Al termine di una decina di secoli, quando l’assimilazione fu raggiunta ed il Buddhismo fu assorbito nella tradizione cinese, all’epoca Sung, ben poca cosa sussisteva ancora dei suoi elementi indiani.

La scuola più rappresentativa di quel tempo e che qui viene presa in considerazione è la scuola Ch’an, che si pronuncia Zen in giapponese, nome con il quale è maggiormente conosciuta nel mondo occidentale. La parola Ch’an è la trascrizione della parola sanscrita Dhyana, che significa “meditazione”.  Nel Buddhismo canonico dell’India, questa parola indica alcuni esercizi, debitamente definiti e graduali, che tendono all’ottenimento di una serie di stati di risveglio, di concentrazione e di pulizia mentale caratteristici dello Yoga.

Quando il Buddhismo penetrò in Cina questa tecnica si innestò su tecniche analoghe che avevano avuto uno sviluppo, in precedenza, nel Taoismo; coloro che ne divenirono specialisti furono maestri di Dhyana (in cinese, maestri di Ch’an). Con la cinesizzazione progressiva del Buddhismo, il Ch’an si trovò implicato in un problema che non aveva granché di indiano e che contrapponeva la meditazione e l’azione, la teoria e la pratica, l’evasione e l’impegno, il movimento e la quiete perché tutto in Cina si rapportava a questioni di comportamento umano ed esperienze in atto.

Ed è così che prima del ‘700, verso l’inizio dell’epoca Tang (618-907), andava a formarsi quella che più tardi si sarebbe chiamata la scuola Ch’an, che è molto meglio a questo punto chiamare con il suo nome cinese, perché era in piena reazione nei confronti della Dhyana, la meditazione concepita all’indiana. Essa fu una vera riforma cinese del Buddhismo perché non solo la meditazione introversa, passiva, negativa, il Ch’an seduto come si diceva nella scuola, cessò a poco a poco di essere praticata, ma fu formalmente condannata.

La quiete fu considerata solo dialetticamente con il movimento. L’una non poteva essere senza l’altro secondo la nozione di superamento dei contrari che il Ch’an aveva ereditato dal Taoismo pre-buddhista.

Il principale iniziatore di questa riforma è stato un monaco, conosciuto come un illetterato, Hui Neng, morto nel 713. Era un cantonese, un semi barbaro come dichiarò egli stesso, perché la religione di Canton rimaneva a quel tempo ai margini della cultura classica cinese, ma fu l’uomo migliore per levarsi contro il Buddhismo cinese, che dominava la vita intellettuale della corte, degli ufficiali e dei letterati delle metropoli imperiali.

Niente più opere, niente pratiche pie, niente ascetismi, niente riti, niente culti; non più testi, ma liberazione delle scritture, cercando la verità in sé stessi. Risvegliando l’uomo vero, l’uomo vivente, dalle bende che lo costringono, dalle tradizioni scolastiche, dalle vane speculazioni, dalle ricerche erudite.

Diventare semplici, rilassati, lasciare la presa, non avere più affari, ecco i temi essenziali di questa scuola che si propagava nella Cina intera e poi nel resto dell’estremo Oriente. Un secolo e mezzo dopo Hui-neng, Lin-Chi seppe dare a questo sistema, che è la negazione di tutti sistemi, la sua espressione, sicuramente la più forte, il suo accento più umano e la sua portata più vasta.

Il suo insegnamento, che gli valse durante la sua vita una celebrità nazionale, lo abbiamo conosciuto per una raccolta di note che sono state compilate da uno dei suoi discepoli. Secondo una tradizione che risale a Confucio e che vuole che le parole di un maestro siano registrate come sono state dette, gli insegnamenti di Lin-Chi sono pervenuti nella lingua che egli stesso aveva usato per prima. 

Altamente idiomatica tanto da avere creato non poche difficoltà per la sua interpretazione, essa è resa ancor più difficile dal carattere aspro del pensiero di Lin-Chi. Senza alcuno sviluppo discorsivo, è un pensiero rivolto contro il discorsivo; mai esposizioni astratte, l’astrazione è rigettata; l’ellissi regna nelle relazioni fra le idee e bisogna, ogni momento, supporre ed indovinare. Le conclusioni rimangono implicite lasciate all’intuizione dell’ascoltatore, o del lettore.

In più, nemico dichiarato di tutti i verbalismi, Lin-chi ricorre sovente al grido, ai gesti, ai colpi di bastone, discendendo bruscamente dalla sedia e sortendo dalla sala con la rapidità del vento.

Tutto questo egli chiama agire con tutto il proprio corpo e il significato di questi comportamenti, che costituiscono una sorta di linguaggio fra convenuti, rimangono poco chiari ad una prima lettura.

Si presentano come degli enigmi, la chiave dei quali deve essere trasmessa soltanto oralmente. Nei monasteri Zen giapponesi, il testo Rinzai Roku come viene correntemente chiamato, è fondamentale ed è oggetto di lettura e commento di ogni maestro.

Ho avuto l’opportunità e la fortuna di ascoltare il commento a questo testo, come pure al Hekigan Roku e al Mumon Kan, dal mio maestro il Roshi Yamada Mumon, nel tempo che sono vissuto a Shofuku-ji in Giappone. Il commento, o meglio ancora, l’interpretazione che il maestro di Ch’an fa del testo, oggetto del suo sermone quasi quotidiano, è qualcosa di speciale.

Egli deve ricreare il momento e lo spirito dell’episodio di cui sta trattando e far di tutto per mostrare ai suoi ascoltatori la realizzazione dei personaggi che compaiono sulla scena. Per fare ciò si avvale della lunga esperienza di pratica personale e dell’abitudine all’insegnamento. Dalla pratica di concentrazione e di respirazione gli vengono gli strumenti per esprimere il proprio Ch’an, oltre che dalla sua realizzazione spirituale. Nel momento in cui parla, il maestro deve essere i personaggi del testo, che può interpretare perché li ha conosciuti direttamente, senza intermediari, per mezzo della risoluzione dei Koan, nei quali essi compaiono di volta in volta secondo una gradualità stabilita. Inoltre, il maestro deve porgere ai suoi studenti gli strumenti per interpretare, nella propria vita di tutti i giorni, avvenimenti che si sono svolti nel lontano passato ma ancora in grado di riproporre i problemi della presente umanità.

In Giappone i monaci e i laici, che assistono ai sermoni del maestro, seggono in terra sulle stuoie, all’interno della sala delle cerimonie, la più grande dei tanti edifici che costituiscono il monastero. Il maestro entra per ultimo accompagnato da un rullo di tamburo; al suono di una campana tutti i presenti iniziano a recitare ad alta voce, secondo il tempo scandito da uno speciale oggetto di legno cavo, le invocazioni per salutare i maestri del passato. Prima che il maestro inizi a parlare, si recita un avvertimento del grande maestro giapponese Daito Kokushi (1282-1338) il quale esorta i monaci a dedicarsi completamente alla ricerca della Via, senza pensare al cibo o alle vesti e tanto meno al successo materiale.

Infine il maestro, che ormai è seduto sul suo alto seggio, legge il capitolo del testo che prenderà in esame. Egli è rivolto all’altare e tutti gli altri sono seduti ai suoi lati, trasversalmente rispetto a lui, in silenzio assoluto, in profonda meditazione, cercando di diventare una sola cosa con il maestro e con le sue parole. Queste parole devono essere comprese non per il loro senso letterale, ma accolte in silenzio in sé stessi, per lasciare che parlino dall’interno.

Il sermone dura più di un’ora ed il solo fatto di rimanere seduti immobili così a lungo, senza cuscini, mette a dura prova gli ascoltatori.  Alla fine il maestro esorta tutti a trovare l’uno in sé stessi e poi tutti insieme si recitano i “Quattro Voti del Bodhisattva”: Salvare tutti gli esseri, Estirpare tutte le brame, Comprendere tutte le leggi, Realizzare la illuminazione.

fonte:   http://www.scaramuccia.it/

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