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Archive for the ‘Testimonianze’ Category


… una testimonianza preziosa di due cari amici (Lama Gendun ed Eugenia) che hanno scelto di dedicare gran parte della vita ad aiutare gli altri .. ed in particolare la popolazione Tibetana …

Queste le parole di Eugenia che racconta come nasce l’associazione sostibet ..

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SOS TIBET INDIA NEPAL

Com’è nata

Avevo già avuto un contatto con il popolo tibetano, per un periodo avevo insegnato inglese ad un gruppo di monaci tibetani in esilio e a  dei bambini  a Dharamsala in India, il piccolo paese arroccato sulle montagne dove si trova la sede del governo tibetano in esilio.

Quello che mi aveva colpito era il forte desiderio di apprendere di questi giovani che si impegnavano seriamente nello studio di una lingua che gli avrebbe permesso “di entrare in contatto con il resto del mondo” questo erano soliti ripetere.

Ricordo di un pic nic in alta montagna una domenica pomeriggio, con la scolaresca a seguito, dopo aver camminato per diverse ore, giunti a destinazione eravamo intenti a riempire lo stomaco e ad ammirare il meraviglioso paesaggio circostante: le vette innevate facevano da sfondo ad un silenzio immacolato, l’immensità di quelle valli invitava lo sguardo a dilatarsi per contenere il cielo.

Mentre contlemplavo la bellezza del luogo un gruppetto di tre bambini,Tashi, Sonam e Tsering Ton due si avvicinano lentamente con il loro quaderno degli esercizi chiedendomi di correggergli i compiti. Rimasi allibita, dicendo loro che era sabato e non c’era lezione, che avremmo potuto giocare insieme, ma loro mi dissero che avevano già fatto gli esercizi per il lunedì ed erano pronti a farne altri; non mi era mai successo qualcosa di simile prima di allora, capii quanto grande era il loro desiderio di apprendere.

vol51Eugenia

Quando arrivavo in classe loro erano già pronti con la penna in mano, non perdevano mai una lezione, venivano anche se avevano la febbre alta, alcuni camminavano molto per raggiungere la scuola, erano degli studenti modello; quando camminavo per le strade del villaggio se incontravo i loro genitori, venivano subito a salutarmi, ringraziandomi per quello che facevo per i loro figli.

Ho notato che nella cultura tibetana c’è un profondo rispetto per gli insegnanti, per chiunque ha qualche insegnamento da trasmettere. Anche i monaci erano ben felici di apprendere qualche rudimento di inglese, la loro umiltà a volte mi metteva a disagio, si preoccupavano sempre della mia salute e volevano essere sicuri che non mi mancasse nulla, quanto calore ho ricevuto dai loro sguardi, la compassione di cui parla Sua Santità il Dalai Lama forse non è altro che una sincera attenzione verso l’altro.

Durante la prima estate che trrascorsi in Tibet di nuovo umiltà e compassione riempivano di dolcezza il mio stare tra di loro, l’ostacolo della lingua non creava disagio, ma c’era una comprensione che a volte andava al di là della parola.

Ero stata accolta con molta gioia e rispetto dalla famiglia del dottor Gendun, che in seguito sarebbe diventato mio marito, anche se non potevamo  trascorrere  molto tempo insieme, perché  lui molto spesso era impegnato a visitare donne ed anziani che venivano da lontano in cerca di un medico, venivano a cercarlo anche molte persone per ringraziarlo per l’aiuto  che aveva dato alle loro famiglie o perché semplicemete aveva li aiutava economicamente a far studiare i loro figli.

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Solo quando fui al villaggio venni a conoscenza del fatto che erano già diversi anni che Gendun  aiutava  e sosteneva molta  gente del suo villaggio, e che faceva studiare  diversi bambini alle scuole elementari e un paio all’università, facendosi carico di tutte le loro spese.

Un giorno  venne un ragazzo accompagnato dal padre e chiese di lui, entrò in casa ed iniziò a parlare, quando chiesi a Gendun di tradurre Lama Tsering, questo era il nome del ragazzo, lui era già scoppiato in lacrime, stava chiedendo a suo padre di fare dei prestiti o vendere la casa per potergli permettergli di continuare gli studi, l’unica alternativa sarebbe stata quella di andare a pascolare gli yak.

Vidi molte cose nei suoi occhi ma soprattutto capii quanto deve essere difficile non aver la libertà di scelta e decisi che per quello che mi era possibile avrei voluto aiutare quel ragazzo. Dopo pochi giorni successe un episodio simile, e il giorno dopo ancora ed io non riuscivo a rimanere impassibile di fronte a quelle richieste di aiuto, così iniziai a fargli delle foto e a prendere i loro nominativi ,  promettendo  che una volta tornata in Europa avrei cercato di raccogliere dei fondi per aiutarli.

Pochi giorni prima della partenza mi resi conto che avevo raccolto più di quaranta nominativi, Gendun si arrabbiò moltissimo con me, dicendo che non avrei dovuto promettere aiuto se  non sarei stata sicura di poterli aiutare, perché loro erano sicuri che l’aiuto sarebbe arrivato e non volevo  tradire la loro fiducia.

Eugenia-Bimbe

Fu così che tornata in Italia  mi sentivo carica di responsabilità verso quei ragazzi ai quali avevo promesso aiuto, ma mi diedi subito da fare  e nel giro di pochi mesi parlandone tra parenti ed amici stretti riuscimmo a trovare dei sostenitori per ogni ragazzo, ed ogni volta che qualcuno si impegnava ad aiutare questi giovani a finire un ciclo di studi il mio cuore scoppiava di gioia, sapendo che stavamo dando ad un’altra vita la possibilità di migliorare.

Nel mese di dicembre i due ragazzi universitari e tutti gli altri bambini avevano trovato un sostenitore, così con l’aiuto di qualche altro amico intimo decidemmo di creare S.O.S Tibet, India, Nepal onlus.

Gendun-Bimbi

L’anno successivo abbiamo iniziato a fare degli incontri  in cui Gendun parlava della medicina tibetana e dei valori fondanti della loro cultura, tutti sembravano essere molto interessati e alla fine degli incontri parlavamo dei nostri bambini e della loro voglia di imparare a leggere e scrivere, così c’era sempre  qualcuno che aderiva al progetto e questo ci faceva sentire meno soli e ci dava la forza di continuare nel nostro operato.
(Eugenia – sostibet)

Se vuoi aiutare chiama 347 1059277

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001-65Photo by Klum Photography

<La malattia>

(di Daniela Stanco)

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Quando arriva la malattia, chi è saggio non ci trova niente di strano. Nascere in questo mondo implica l’esperienza di ammalarsi. Tuttavia, perfino il Buddha e i Nobili, quando si ammalavano, ricorrevano alle medicine. Per loro si trattava semplicemente di riportare in equilibrio gli elementi. (…) Curavano la malattia con la retta visione, non certo con l’illusione. “Se guarisce, guarisce, se non guarisce, non guarisce” (…)

(Ajahn Chah)

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Tredici anni fa sono stata colpita da una grave malattia chiamata “linfoma non Hodgkin”. Un tumore maligno dei tessuti linfatici. Dopo un intervento chirurgico di una certa serietà, mi sono affidata alle cure dell’équipe medica dell’Istituto di Ematologia del Policlinico di Roma. Una volta alla settimana, per tre mesi, mi sono recata in day hospital nella sala terapia dell’Istituto per cercare la guarigione attraverso la chemioterapia che mi era stata assegnata. E, con grande mia gioia, la remissione completa della malattia è avvenuta. Quello che ora vorrei ricordare a me stessa e riuscire a condividere con voi è quanto questa grande sofferenza sia stata motivo di utile trasformazione spirituale. Allora io non ero una praticante di Dharma e non frequentavo nessuna chiesa. Per mia fortuna possedevo una spontanea fiducia nella vita e il dono di credere in una realtà trascendente, nell’esistenza di uno Spazio Sacro a cui era possibile accedere. Questa fede credo abbia giovato al processo di guarigione perché in effetti, senza che io ne fossi consapevole, mi ha permesso di accettare la malattia e quindi riuscire a indirizzare l’energia verso la salute. Naturalmente il destino ha fatto la sua parte… e le cure mediche pure!

Mi sono svegliata dall’intervento in una condizione di estremo dolore, mi sembrava di essere avvolta in un involucro sconosciuto capace solo di trasmettere sofferenza. E quando mi chiedevano: “Come stai?”, rispondevo: “Male”. Capivo finalmente l’esatto significato di questa parola. Non potevo nascondere nulla e, a quelli capaci di essere presenti assieme a me nell’esperienza, accoglienti, ho voluto veramente tanto tanto bene. Avevo bisogno di essere aiutata a stare in quello che succedeva, non ad essere distratta, portata fuori. Quello è stato per me, allora, il vero conforto.

La chemioterapia mi ha presto tolto vigore, lucidità mentale e bellezza mettendomi in una condizione di prematura vecchiaia. Certo, si è trattato di una vecchiaia provvisoria, a termine, sapevo che quelle qualità sarebbero tornate se non fossi morta. Ugualmente quella breve conoscenza è stata utile perché mi ha resa più paziente e attenta verso gli anziani e in genere verso l’handicap. Mi ha ricordato quanto possa essere motivo di gioia il semplice camminare, autonoma, per le strade del mondo. Mi ha fatto considerare questa vita un dono da trattare con cura e amore. E, soprattutto, credo, mi ha preparata ad accettare con maggiore umiltà il naturale decadimento di questo corpo.

Quando tornavo a casa, dopo l’induzione chimica in vena, e soprattutto il giorno dopo, sembrava di essere in guerra, il dopo bombardamento sulla città. Dovevo presto riparare i danni. Bere tanta acqua per proteggere i reni, curare la mucosa della bocca piena di afte e piaghette, prendere minerali essenziali, sopportare dolori vaganti che comparivano qua e là. Anche sciacquare una tazza era molto faticoso e leggere, mio conforto da sempre, difficile. Eppure lo spazio non era tutto riempito dalla sofferenza. Le giornate non erano un continuo sempre uguale. Le sensazioni e i sentimenti che mi attraversavano erano come sempre mutevoli. Pace, calma e fiducia facevano capolino permettendomi pause di vero riposo.

E la morte era presente come non era mai avvenuto. Ma la tenevo lontana: “Ho il 70% di possibilità di morire in questa occasione, ma io sono sicuramente nel 30%! Adesso non posso occuparmi della morte, posso solo prendermi cura della guarigione!”. Questo era il pensiero.

La grande paura della morte (buio, freddo, salto nell’ignoto,solitudine, perdita, fine del viaggio) l’ho sentita tutta quando mi hanno detto che la malattia era in remissione completa. Allora però non avevo né il desiderio, né gli strumenti per guardare quella paura. Ho iniziato solo da poco a esplorarla.

Un altro sentimento molto forte di quel periodo è stata la gratitudine. Ho provato gratitudine verso i miei cari, verso i medici e gli infermieri, verso quelle sostanze chimiche velenose ma efficaci, verso gli amici e, soprattutto, verso il mio “potentissimo” angelo custode che mi aveva così bene aiutata!

Era però una gratitudine muta. Solo negli ultimi tempi, attraverso certi atti devozionali di corpo, mente e cuore – prendere rifugio, l’inchino, i canti, le offerte all’altare casalingo – riesco a esprimere la gratitudine con tutta la sua forza viva. E quanto questa possibilità di espressione mi dia conforto e rinnovi in me la fiducia, sempre mi fa stupire!

Quando ci si trova in situazioni di grande smarrimento e dolore quello che conta sono le cosiddette piccole cose, che poi sono quelle veramente grandi. Un cugino venne a trovarmi portandomi un cactus microscopico, turgido di acqua e di calore. Quella pianta possiede ancora oggi la facoltà di ricordarmi l’importanza del dono (saper dare ma anche saper ricevere), della compassione, della presenza, della necessità di non fuggire davanti alla paura di malattia (nostra e degli altri), vecchiaia, morte.

Una volta convalescente ho avuto modo di riflettere sull’accaduto.Questa riflessione (che in realtà non si è più interrotta) mi ha portata, tra le prime cose, a decidere di praticare hatha yoga con una brava insegnante, divenuta in seguito un’amica e, soprattutto, la prima persona che mi ha fatto conoscere il Sentiero attraverso la pratica meditativa samatha-vipassana. Di questo le sono sempre riconoscente. Riuscire a vedere la natura di dukkha di questa vita, capire che la malattia è espressione propria di questo corpo quanto la salute, è stato per me motivo di grande sollievo e motivo a perseverare lungo il cammino che il Buddha, con tanta compassione e saggezza, ci ha indicato.

Mentre raccontavo questa esperienza ad Ajahn Chandapalo, abate del monastero Santacittarama, lui ha detto: “Sei stata fortunata ad aver conosciuto malattia, vecchiaia e morte in giovane età…”.

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75 (70) Costui con la gran nave della sua sapienza farà valicare l’oceano del dolore all’afflitto mondo caduto in balìa dei flutti, quell’oceano che ha per spuma la malattia, per onda la vecchiezza e per orribile tempesta la morte. (Asvaghosa)

fonte Lista Sadhana – Yahoo

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galaxy

<Estratti da: Collisione con l’infinito>

(Excerpts from: “Collision with the Infinite”)
di Suzanne Segal (1955-1997)

http://www.angelfire.com/realm/bodhisattva/segal.html#N1

Presentato dal Wanderling, e tradotto da Aliberth

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PARTE I

Nella primavera del 1982, Suzanne Segal, una donna incinta di 27 anni che allora viveva a Parigi, era in attesa dell’autobus per tornare a casa di ritorno da una riunione di gestanti. Quando l’autobus arrivò lei salì
insieme ad altri pendolari. Improvvisamente, sentì un ‘pop’ nelle sue orecchie, e fu subito chiusa in una sorta di bolla che la tagliò fuori dal resto della scena, e la lasciò muovendosi ed agendo in un modo molto più
meccanico. Lei dice:

“Sollevai il mio piede destro per salire sull’autobus e mi sentìi spingere sulla testa da una invisibile forza che entrò nella mia consapevolezza come la silenziosa esplosione di un bastone di dinamite, e che scoppiò davanti alla mia abituale coscienza aperta e, come aprendo delle cerniere, mi spaccò in due. Lo spazio aperto che apparve, e che in precedenza avevo chiamato ‘me’, fu con forza spinto dentro di me dalla sua abituale posizione in una nuova collocazione che era approssimativamente un piede dietro ed a sinistra della mia testa. Ora, ‘Io’ ero dietro il mio corpo e da lì guardavo il mondo senza usare gli occhi del mio corpo”.

Camminando verso a casa, dalla fermata del bus, lei si sentiva come una “nuvola di consapevolezza” che seguiva il corpo. La nube era un testimone situato dietro ed a sinistra del corpo e completamente separato da esso, oltre che dalla mente e dalle emozioni. La testimonianza era costante, e così era anche la paura, il timore di una completa dissoluzione fisica. La testimonianza continuò per vari mesi, anche durante il sonno, e la Segal
dovette sopportare la paura e il concomitante stress, trovando sollievo in lunghi e frequenti sonni. Il ‘beneficio’ della presenza del testimone era che esso manteneva un certo senso di ‘sé’ personale, il ‘me’. Ma dopo pochi mesi il testimone scomparve, e con esso ogni traccia del ‘sé’ personale, cioè il ‘me’. Lei dice: “Quando il ‘sé’ personale scompare, non c’è niente e nessuno all’interno che possa essere collocato come ‘me’. Il corpo è solo un contorno, vuoto di tutto ciò di cui prima si era sentito così pieno e completo”.

Ora non c’era nessuno che pensava, sentiva o percepiva, tuttavia queste funzioni proseguivano senza intoppi e nessuno notava qualcosa di strano. Eppure, lei si sforzava di capire chi è che stava vivendo e perché il suo corpo continuava le sue funzioni. “La vita divenne un lungo ininterrotto KOAN, sempre insolubile, eternamente misterioso, totalmente fuori dalla portata e capacità della mente di poterla comprendere”.

Con la sparizione del testimone e, passate anche tutte le vestigia di un familiare ‘me’, un più elevato livello di paura sorse. Lei lo chiamò addirittura terrore. Sentiva anche una costante ed abbondante sudorazione ed una continua agitazione delle estremità. Ora il sonno non era più una droga bene-detta, perchè non c’era nessuno che dormiva. Non gli portava più sollievo. Lei non poteva identificare un qualcuno che ricevesse riposo dal
dormire, così come non vi era uno che era sveglio. “Ciò che era scomparso era il punto di riferimento di un ‘sé’ personale che sentiva personalmente le sensazioni. Era costantemente presente un senso di ‘vacuità’ in tutti gli stati mentali o emotivi, e questa co-presenza precludeva che potesse esistere qualsiasi qualità personale. Niente pensieri, sentimenti, o azioni che sorgessero più per qualsiasi scopo personale”.  “L’iper-vigilanza da parte della mente era massacrante Siccome essa era  costantemente impegnata a contrastare l’esperienza del vuoto, c’era poco spazio per farla restare attenta a tutte le altre cose. La mia vita era piena di visione del ‘non-sé’, e mi facevo continue domande riguardo a questo ‘non-sé’. Perfino nel sonno la vacuità di identità personale continuava imperturbato. Nessuna attività mentale in qualsiasi modo poteva mai cambiare l’esperienza di non-sè, e nessun tentativo di comprenderlo, organizzarlo, o valutarlo mi riportò mai un senso di identità individuale”.

PARTE II Dopo dieci anni, lei cominciò ad esplorare la prospettiva spirituale sulla vacuità del non-sé. Così trovò volumi di materiale sull’Anatta (non-sé) esulla Sunyata (vuoto) nel Buddismo. Quindi, imparò che non solo la sua  esperienza era stata capita, ma essa veniva ricercata da quelli che sitrovavano sul cammino spirituale.  Forse la più grande sfida degli ultimi dieci anni della Segal fu il suo funzionamento giorno per giorno senza un ‘me’. “(La personalità) funzionagalleggiando in una vastità che è riferita a nessuno”, lei ha scritto. Scoprì anche che il Buddismo spiega tutto ciò descrivendo gli skandha o “aggregati”, come funzioni della personalità che restano anche quando uno èvuoto della persona o del ‘me’. I cinque skandha includono la forma, le sensazioni, le percezioni, i pensieri e la coscienza. La loro interazionecrea l’illusione del sé. Essi in realtà non costituiscono il ‘sé’. Non esiste il ‘sé’. Quando la verità degli skandha è rivelata, come accadde improvvisamente alla Segal alla fermata dell’autobus, può essere visto chenon vi è alcun sé, ma solo gli skandha che funzionano nel modo come funzionano, e la verità è che sono vuoti, essi non costituiscono il sé, ma la loro interazione crea l’illusione del sé.

Ancora, la Segal non potè trovare descrizioni letterarie della paura che essa aveva provato per dieci anni. Lei sostiene che il linguaggio e leipotesi che vanno a creare il concetto di ciò che è l’esperienza spirituale reale, è un sistema chiuso, e che uno che parli di esperienze al di là di tale sistema chiuso è considerato come se stesse navigando verso l’illuminazione con l’uso di termini altamente discutibili, di cui uno di essi è la paura. “Ci siamo convinti che la presenza di particolari pensieri, sentimenti, o azioni è il solo modo con cui possiamo realmente sapere se qualcuno si è Illuminato. La lista di attributi Illuminati è molto lungo e complesso. E’ questo realmente ‘amore’, noi ci chiediamo, in presenza di un Essere presumibilmente Illuminato? Oppure beatitudine? Hanno essi ancora pensieri, vorremmo sapere, dato che abbiamo sentito che una mente vuota di pensieri è sicuramente un segno di progresso spirituale? E che cosa è questa? E’ davvero paura? Beh, la presenza della paura dimostra che non è possibile avere una vera esperienza spirituale? In realtà, tuttavia, la presenza di paura significa solo che la paura è presente, e nulla di più”.

PARTE III

Nella sua ricerca, lei trovò sui libri o di persona altre cose che offrivano verifica: Di tutto quello che lei aveva incontrato o letto, sentì che Bhagavan Sri Ramana Maharshi era il più chiaro, e così considerò Ramana suo padre spirituale. La Segal estrasse una parte dei suoi colloqui, e in generale afferma che “Egli descrisse la mia esperienza in un modo così diretto e semplice che non lasciava assolutamente alcun spazio a dubbi su quello che mi era davvero successo”. E la Segal dice ancora: “Leggendole sempre di più, le parole di Ramana mi hanno portato ad un sorprendente passaggio. Quando un suo discepolo gli chiese se fosse necessario essere  associati con un saggio (Sat-Sanga), al fine di poter realizzare il vero ‘Sé’, Ramana rispose: ‘L’associazione con il ‘Sat-non-manifesto’ o l’esistenza assoluta (è richiesta)…. Il sastra dice che uno deve servire (essere associato a) il ‘Sat-Non-manifesto’ per un periodo di dodici anni, al fine di raggiungere la realizzazione del vero ‘Sé’… ma siccome molto pochi sono in grado di farlo, essi dovranno perciò prendere il meglio del secondo, che è l’associazione con il sat-manifesto, cioè il Guru’.” (dalla fonte di Ramana).

Ciò che la stupì, ovviamente, circa quel passaggio è che lei stessa era alla fine del dodicesimo anno della sua esperienza di ‘non-sé’, o del ‘Sat-Non-manifesto’. Altri incontri, oltre Sri Ramana, furono: Christopher Titmuss, un insegnante di meditazione Vipassana Buddista, il quale le assicurò che lei non era pazza, ma che la pazzia era proprio la mancanza di esperienze come la sua, la cui assenza permette che vi sia il ‘me’ e le tragiche conseguenze dei limiti su scala personale, sociale e globale. Titmuss disse alla Segal che lei aveva bisogno di essere rassicurata sul significato spirituale della sua esperienza, e che alla fine  una serena accettazione della sua esperienza avrebbe tranquillizzato i suoi pensieri e i sentimenti che generavano la paura. E da quella serenità verrà una piena e profonda comprensione dell’esperienza. Lei arrivò presto a realizzare che la sua esperienza non era né pazzia né fraintendimento, ma che era solo impossibile da afferrare.

Tenshin Roshi Reb Anderson, del ‘Green Gulch Zen Center’ di San Francisco, che l’aiutò ad allentare la sua rigidità così che la sua mente potè interpretare l’esperienza. Egli la aiutò a vedere che la sua esperienza del  vuoto era beatitudine, ma non un tipo di felicità o gioia relativa, quanto piuttosto la beatitudine della vacuità di conoscere se stessi. Egli leimpartì la conoscenza che questa beatitudine assoluta non può essere conosciuta tramite gli skandha, da qui l’abbandono della rigidità nella sua mente.

Poonjaji, il ben noto discepolo di Ramana, convalidò l’esperienza della Segal, dicendole: “Tu stessa sei diventata la liberazione (Moksha) dei saggi realizzati”.

Gangaji, un altro eminente insegnante del lignaggio Ramana-Poonjaji, dichiarò: “Questa realizzazione della vacuità inerente di tutti i fenomeni – che è pura coscienza – è vero completamento. Di fronte all’esistenza condizionata, può essere inizialmente sentita molta più paura. In definitiva, la paura si rivela anche essere solo quella stessa coscienza vuota”.

Andrew Cohen, che la Segal incontrò con vero beneficio. Essi trascorsero molte ore insieme parlando della vacuità del ‘sé’ personale, e Cohen in quel momento impartì alla Segal la consapevolezza che il vuoto “era pieno di squisito infinito”. Nel mese che seguì, quella consapevolezza si approfondì e divenne la radice della sua stessa capacità consapevole. Andrew Cohen aveva espresso e trasmesso un grande entusiasmo verso la ‘condizione’ della Segal, perchè lei era una persona rara, non solo per aver avuto l’esperienza del non-sé, ma nel persistere a vederlo tramite una stabile risolutezza. Cohen le disse, “La tua apertura e ricettività è un segno di vera umiltà, che da sola rende possibile tutte le cose”

PARTE IV

Eppure, tutte le rassicurazioni non stavano producendo gioia, finchè una brusca transizione produsse un cambiamento nella conoscenza dal ‘Non c’è alcun sé personale’, al ‘Non ce n’è nessun altro’. Ciò si verificò mentre la Segal era alla guida per andare a trovare alcuni amici, quando: “Sono diventata improvvisamente consapevole del fatto che stavo guidando tramite ‘me-stessa’. Per anni, non c’era stato affatto alcun sé’, ma qui su questa strada, tutto era me, e io stavo guidando grazie a me per arrivare dove già ero stato. In sostanza, io non stavo andando da nessuna parte perché ero già in ogni luogo. L’infinita vacuità in cui io sapevo di essere, ora era evidente come l’infinita sostanza di tutto ciò che vedevo”.

Quindi, la vacuità che lei aveva conosciuto come uno stato di coscienza divenne ora la vastità di tutta l’esistenza.

NOTA: In una simile ottica, per un interessante confronto, vedi anche le parole del maestro del Chan Buddista, della tarda dinastia Ming, Han-Shan-Te Ching (1546-1623).

Poco tempo dopo, mentre si trovava a passare un week-end di ritiro in un centro buddista nel nord della California, arrivò una nuova consapevolezza. Vi fu una fluidità di percezione in cui le varie entità erano percepite come la stessa vastità, cioè come lo spazio stesso, e tutto era pervaso da calma. Ora arrivò a sentire che anche lei era della stessa sostanza della vastità. Sapeva questo non attraverso gli organi di senso, ma tramite la sostanza che ‘lei era’. Lei descrive questo, come un dito che disegna nella sabbia, in cui la sostanza della vastità è insieme il dito, il disegno e la sabbia.

Ed ora finalmente vide la paura per quello che era. In precedenza, lei aveva assegnato il significato alla paura, vedendola come un’indicazione dell’invalidità dell’esperienza di non-sé. Ora lei vedeva la paura come una paura senza senso. La paura non era differente dalla forma, dal vuoto, dal dolore, dall’Illuminazione. Tutto è fatto della stessa sostanza, come la vastità. Vedendo questo, sapendo questo, la morsa della paura si ruppe e la gioia finalmente sorse.

PARTE V

Il resto della “Collisione con l’Infinito” è una diretta confessione della non-dualità. Le seguenti sono citazioni selezionate dal libro:

“Questa vita, ora è vissuta in una costante, onnipresente consapevolezza dell’infinita vastità che io sono”.

“La presenza di eventuali pensieri, sensazioni, o azioni non è mai interpretata in modo diverso dal puro fatto che essi sono presenti”.

“… Nessun giudizio sul bene o male, o giusto o sbagliato, si pone mai, poichè tutto è semplicemente quello che è.”

“Una volta che la mente accettò i parametri della propria sfera e fermò ciò che patologicamente era fuori di essa, il sapore impersonale di una gioia indescrivibile della vastità che sperimenta se-stessa si mosse spostandosi radicalmente ed eternamente sul piano mentale”.

“… la vita come al solito continua a dispiegarsi, tutto viene fatto, proprio come aveva fatto prima che si fosse verificata la realizzazione della vastità. Poiché in ogni caso, non vi è mai stato un personale ‘agente’, la realizzazione di questa verità non fa nulla per cambiare il modo in cui il funzionamento si verifica”.

“Per vivere nella vastità dello stato naturale, occorre fare un bagno nell’oceano dell’impersonale gioia e piacere. Questa gioia o piacere, che non appartiene a nessuno, è differente da qualunque gioia o piacere che sembrano riferirsi o appartenere a qualcuno. La vacuità è così piena, così totale, e così infinitamente beata in se stessa”.

“In nessun modo… sto suggerendo che le pratiche non dovrebbero essere fatte, ma solo che non vi è alcun praticante che sia l’agente che sta dietro di esse. Questo è vero di ogni attività. … Solo perché non vi è alcun praticante (e non c’è mai stato) non significa che non può esserci la pratica. Se è ovvio che una particolare pratica spirituale abbia a verificarsi, allora si verificherà”.

“In realtà, ancora non c’è alcun ‘Io’ individuale in grado di capire come scoprire l’infinito. E ancora più importante, dove starebbe l’infinito? Voglio dire, noi non stiamo parlando di qualcosa che può essere nascosto sotto il tappeto. Se si potessero vedere le cose solo ed esattamente per quelle che sono, si vedrebbe che ‘colui’ che sta vedendo è la vastità stessa”.

“Il ‘carattere di lavoro’ prescritto in psicoterapia, così come da alcune tradizioni spirituali, tra le quali il Buddismo Zen, conduce ad una uguale trappola creata dal fatto di non vedere le cose per quelle che realmente sono. Un naturale rilassamento dell’essere si verifica se uno non viene sedotto prendendo le idee come verità. Questo rilassamento è antitetico al ‘carattere di lavoro’, con la sua posizione chiara su come potremmo essere se operassimo sui nostri caratteri. Quando bussiamo alla porta del ‘carattere di lavoro’, siamo invitati in labirinto di futurismo. E’ intrinsecamente impossibile arrivare ad un obiettivo che si basa su un ‘io’ che ci spinga là. Il carattere di lavoro si basa sulla stessa erronea convinzione che vi sia un ‘agente’ o ‘attore’ individuale che gestisce lospettacolo della vita e crede di poter diventare un ‘Io’ migliore”.

“… Io non posso più chiamare ‘psicoterapia’ ciò che io faccio, poiché essa non aderisce in nessun modo a normali principi di teoria psicologica o intervento. Il mio obiettivo per tutti è la libertà – libertà totale. Non voglio che essi modifichino il loro modo di ‘sentire’, il lavoro attraverso i traumi infantili, o smettere di avere sintomi. Voglio che siano liberi di vedere che le cose sono proprio quelle che sono.”

“Chi discrimina tra il vero e il falso (sé)? E, vero e falso, per chi? Pensieri, sentimenti, sensazioni, e le frequenze di energia non significano nulla per qualche immaginario qualcuno, ma semplicemente sono solo quello che sono.”

“Noi siamo la vastità, e noi conteniamo tutto – pensieri, emozioni, sensazioni, preferenze, paure, idee, ed anche le identificazioni. Nessuna cosa deve andare da nessuna parte. In ogni caso, dove dovrebbe andare?”

“Lo scopo della vita umana è stato rivelato. La vastità ha creato questi circuiti umani perchè voleva un’esperienza di sé, fuori da se stessa, che non avrebbe potuto avere senza di essi”.
“La sostanza della vastità è così direttamente percepibile a se stessa ogni momento che questi circuiti a volte richiedono un’altra fase di adeguamento per adattarsi ad una più infinita consapevolezza. Quando mi chiedo, Chi sono Io?, l’unica risposta possibile è: io sono l’infinito, la vastità che è la sostanza di tutte le cose. Io sono tutti e nessuno, tutto e niente – proprio come lo siete voi”.

PARTE VI

Nella primavera del 1996, il presente libro era stato completato e Suzanne fu in grado di offrire i suoi insegnamenti al pubblico attraverso dialoghi settimanali e un gruppo di pratica per i suoi terapisti. Nel febbraio del 1997 le fu diagnosticato un massiccio tumore cerebrale.

Morì il 1° aprile 1997 all’età di 42 anni.

Nella postfazione al suo libro, Stephan Bodian, suo amico molto vicino, e colui che la incoraggiò a scriverlo, scrive: ‘Quando questa straordinaria autobiografia fu completata, nella primavera del 1996, Suzanne Segal iniziò a tenere regolari incontri pubblici e dialoghi settimanali e guidando un “gruppo di formazione” bisettimanale per terapisti in cui dimostrò il suo unico modo di lavorare con la gente. Lei era piena di energia ed incarnava un radiante amore incondizionato che attirava la gente come un magnete. Ma lei non si considerava un maestro, insistendo sul fatto che noi siamo “tutti insieme in questo”, tutti siamo la vastità che lei aveva sperimentato così all’improvviso e così articolatamente descritto. Tuttavia, quelli di noi che erano più vicini a lei, spesso trovavano che in sua presenza la nostra esperienza della vastità diventava ancor più profonda e più chiara.

Nell’ultima primavera, Suzanne cominciò ad avere una serie di potenti esperienze energetiche in cui, come dice lei stessa, “la vastità divenne ancor più vasta di sé stessa”. Lei ridendo le chiamava “colpi di autobus” (riferendosi al suo originale risveglio alla fermata del bus). Anche se all’inizio essi erano estatici, sembrava che lei ne fosse sempre più disturbata e spesso doveva fermarsi e riposare dopo un evento particolarmente potente. Al tempo stesso, trovava sempre più difficile relazionarsi alla nozione di “altri” e così il suo ‘gruppo di terapisti’ divenne un’altra occasione percondividere insieme la nostra “descrizione” della comune vastità.

Presto i “colpi-d’autobus” presero ad accaddere più frequentemente, ed alla fine dell’estate Suzanne capì di essere fisicamente esausta e avrebbe dovuto ritirarsi temporaneamente dalla vita pubblica per recuperare. I medici da lei consultati concordarono che la sua energia vitale si era esaurita e quindi le prescrissero ormoni ed altri supplementi vitaminici per contribuire a ripristinargliela. Circa in questo periodo, lei notò anche che la paura, che era scomparsa alcuni anni prima, era ritornata. Suzanne allora chiuse precipitosamente tutti i suoi gruppi e annullò le apparizioni pubbliche, eccezion fatta per il ‘gruppo dei terapisti’ che si sforzò di proseguire per un ulteriore mese.

Durante il periodo di caduta, lei trascorse la maggior parte del suo tempo acasa, da sola e con la sua famiglia, facendo regolari passeggiate sulla riva dell’oceano e sedendo nel suo patio che guardava sulla laguna di Bolinas Stinson Beach, California, dove lei viveva. In questo periodo lei recuperò i suoi ricordi infantili dell’abuso che dovette subire, il che sembrava spiegare alcune delle paure che aveva sperimentato durante i suoi 10 anni da sola, perché non c’era nessuno prima che lei realizzasse che lei era il tutto. Quando io le suggerìi che forse la paura nasceva da una parte di sé che si era staccata o dissociata dalla consapevolezza cosciente, lei immediatamente fu d’accordo.

Alla fine di febbraio Suzanne aveva difficoltà a tenere una penna, a ricordare i nomi, o a stare in piedi senza sentire le vertigini. Su impulso del suo chiropratico, lei entrò in ospedale il 27 febbraio e i raggi X rivelarono che aveva un tumore cerebrale. Lei accettò che le venisse rimosso, ma scelse di non essere sottoposta a radiazioni o chemioterapia. Quando i chirurghi la operarono una settimana dopo, scoprirono che il tumore era troppo diffuso per eliminarlo completamente. L’8 marzo ritornò a casa, e il giorno 10 Marzo lei e il suo compagno, Steve Kruszynski, si sposarono con una piccola cerimonia a casa sua. Poco dopo essi si recarono in Oklahoma per cercare un trattamento alternativo. Ma quando Suzanne ebbe una ricaduta, il viaggio fu interrotto, e fu chiaro che doveva tornare a casa a morire. Alcuni giorni dopo dal ritorno del suo viaggio, Suzanne cadde in coma. Un piccolo gruppo di amici intimi veniva a farle visita ogni giorno per unirsi alla famiglia seduta con lei, respirando con lei, e dicendole addio. La mattina presto di Martedì 1 aprile, Suzanne Segal morì. Seguendo l’uso tibetano, il corpo fu avvolto in un panno, circondato da fiori, e lasciato intatto per tre giorni. Il terzo giorno noi ci sedemmo vicino al suo corpo ed un rabbino locale eseguì una cerimonia tradizionale Ebraica per la richiesta di sua madre.

Il Sabato seguente, quasi 100 persone – tanti amici e parenti di Suzanne, si riunirono per celebrare la sua vita, per apprezare i suoi doni a noi, e condividere il nostro dolore. Al tramonto, il marito, Steve, la sua figlia quattordicenne, Arielle, e suo fratello Bob, si spinsero dentro le onde del mare in quella fredda primavera e dispersero in cielo le sue ceneri. Alcune persone dicono di aver visto la forma di un angelo materializzarsi velocemente e poi disintegrarsi in mare.

Quelli di noi che erano vicini a Suzanne mai misero in dubbio la profondità o l’autenticità della sua realizzazione. Stephan Bodian, Fairfax, California, aprile 1998 –
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AGGIUNTA: “Quando si incontra l’Infinito”

Il Wanderling, avendo già da ragazzo incrociato i vari Sentieri negli anni,con gente come Franklin Merrell-Wolff, nel suo abituale punto forte, per emularne una serie di altri che aveva incontrato lungo il cammino, come il misterioso Wei Wu Wei, e l’ancor più oscuro Alfred Pulyan, rimase da menzionare anche l’Anonimo. Egli, tuttavia, fece un viaggio per incontrare Suzanne, e anzi lo fece una mattina presto lungo la riva di Stinson Beach. Era da poco passata la metà dell’anno 1996, in una tranquilla distesa di sabbia lungo una spiaggia di una laguna a nord di San Francisco, all’insaputa del mondo o di altri, lì si verificò una Collisione con l’Infinito.

Circa cinquant’anni prima, l’uomo che alcuni anni prima aveva sperimentatoil Risveglio per la grazia e la luce del grande Saggio Indiano Bhagavan Sri Ramana Maharshi, percorse quella parte della costa Orientale degli Stati Uniti, nel Sud della California, alla ricerca di persone che egli aveva sentito dire fossero a capo di un movimento di Illuminazione, e quindi, eventualmente, non diverse da se stesso, cioè dimoranti nell’Assoluto. Quella volta però, dopo esser giunto sul luogo, i suoi sforzi, come era invariabilmente successo in altre occasioni, non dettero i loro frutti.

Alcuni anni più tardi, un giovane ragazzo, di sedici o diciassette anni, incrociò il sentiero con l’uomo e in qualche modo fu preso dalla serenità che sembrava dimorare in lui. Passarono un paio di anni e il ragazzo, ora vicino alla fine della sua adolescenza, iniziò la pratica e lo studio sotto di lui sperando di raggiungere risultati simili a quelli che l’uomo aveva ottenuto sotto l’auspicio di Sri Ramana. Gli anni passarono, ma niente. Poi un giorno tutto cambiò e in seguito al Risveglio fu una persona che non è era prima.

Verso la metà degli anni ’90, fu portato alla sua attenzione che c’era una notevole persona che aveva avuto un esperienza molto importante e che si trovava a meno di quattrocento miglia a nord del luogo in cui egli stesso viveva. Egli, non diversamente dal suo Mentore che molti anni prima si era avventurato per cercare altri individui di tipo simile, si diresse a nord per vedere se questa era una vera storia, e se, con parole di W. Somerset Maugham che nel suo romanzo ‘The Razor’s Edge’ di una simile persona scrisse “si può realizzare che in questa epoca viva una creatura notevole”.

Dopo esser arrivato, egli non cercò lei ‘di per sé’, ma venne a sapere che lei andava a camminare lungo la spiaggia quasi regolarmente. Stando da solo una fresca mattina, dopo una breve tempesta che c’era stata la notte prima, un uomo, una donna e una giovane ragazza vagavano lungo il tratto di sabbia verso dove egli stava. Passarono proprio a breve distanza, apparentemente senza accorgersi di lui. La donna, che camminava nel mezzo, voltò lievemente la testa mentre passava e lo guardò. Per entrambi, in un istante, fu come essere colpiti con un martello.

Fermandosi per un attimo, come se fosse stata stordita, lei mosse sempre in modo lieve verso di lui senza togliere il suo sguardo si fermò davanti a lui per non più di pochi secondi, ma per entrambi fu come se fosse stata un eternità. Diversamente dall’incontro tra Upaka e il Buddha sulla strada per Benares, in cui Upaka non fu in grado di accertare il pieno livello di realizzazione del Buddha, questo incontro fu come il venire insieme di materia e anti-materia, che termina con l’emanazione di nulla di meno di un  scoppio di pura energia. Nessuna parola fu detta, né alcun scambio si verificò. Non fu necessario. Appena lei passò oltre, la ragazza fu sentita chiedere: “Chi era quell’uomo?”

“Non c’era nessun uomo”, rispose la donna.
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Anche la Segal aveva cercato una varietà di quelle persone compiute nel campo dell’Illuminazione ed in un modo o l’altro, era anche alla ricerca di un insegnante che non solo potesse spiegarle che cosa fosse l’Illuminazione, ma anche come fare uso di essa nella sua vita quotidiana. Spesso si dice che, quando c’è realmente bisogno di un insegnante, uno ne apparirà. Questo è dovuto ad una qualche inspiegabile serendipity. Può essere dovuto al fatto che il ricercatore ha profondamente ricercato dentro di sé stesso e determinato quale tipo di istruzione possa essergli necessaria. Potrebbe essere che il Risveglio spazi su di voi, come il caso della Segal, come la prima esperienza di morte spazzata via da Sri Ramana Maharshi. Tuttavia, a differenza della Segal in cui prevalse un apparente carenza di comprensione, il Bhagavan ebbe un po’ riconosciuta la seconda esperienza di morte che portò a sua volta molta chiarezza. Talvolta, appena acquisita la chiarezza, la si perde solo per farla ritornare in un secondo momento. In una certa occasione, un Brahmino tormentato dalla casta insultò il Buddha dicendo. “Fermati, tu o uomo rasato, fermati, o emarginato fuori-casta!”

Il Gran Bodhisattva, senza alcun sentimento di indignazione, dolcemente
rispose:

“La Nascita non rende un uomo un fuori-casta,
“La Nascita non rende un uomo un Brahmino;
“L’Azione rende un uomo un fuori-casta,
“L’Azione rende un uomo un Brahmino.
(NAPATA SUTTA,n I.7 Vasala sutta: Il Discorso sui fuori-casta).

“Non solo non c’è un ‘sé’ individuale, ma neanche nessun altro ‘sé’.
Nessun sé, nessun ‘altro’.
Tutto è composto della stessa ‘sostanza’ di vacuità”

Tratto dal libro: “Collision with the Infinite”
di Suzanne Segal (1955-1997)

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Roberto kengaku Pinciara- Maestro Zen

Si sente parlare sempre più frequentemente, a riguardo dei tanti problemi, di questo governo, di questa sanità, di questa giustizia, di questa pubblica istruzione…ecc.
Ecco alcune mie riflessioni.

Troppo facile prendersela con il sistema.
Ogni sistema sociale ha la sua origine nella mente dell’uomo, nelle sue aspirazioni e nelle sue idee, che si basano si, sul profitto personale, ma anche sul tentativo di vivere meglio questa vita, renderla più confortevole, più longeva e sicura sia a noi che agli altri.
Non tutti i sentimenti e desideri umani sono malvagi, mi sembra.
Il punto è che poi, appunto, poi, cioè quando il sogno diventa realtà, quando il progetto si trasforma in realizzazione, la teoria in pratica, si deve necessariamente fare i conti con l’umano.
La vera minaccia del pianeta non sono le atomiche o le basi nucleari o gli esperimenti scientifici sul DNA, ma sta negli uomini che ci lavorano, che utilizzano queste cose e come le utilizzano.
Le cose in sé non sono mai malvagie, lo è spesso l’uomo che le utilizza.
L’essere umano trasforma le cose. A Dio l’onore di averle create, all’uomo il dono di saperle trasformare.
Lo stesso vale per le leggi sociali.
Certo che assistiamo a vere e proprie ingiustizie nel campo sanitario, politico, giuridico ecc.; ma le leggi sono fatte per tutti, per una società composta da individui, non possono tener conto dei singoli casi. Anche se, la verità sta proprio nei singoli casi.
Per questa ragione c’è necessità di uomini e donne preparati, educati a fare questo o quel lavoro. Sia nel campo sanitario, politico e spirituale.
Non solo dei tecnici, degli specialisti addetti ai lavori che il più delle volte conoscono solo la loro realtà e perdono il contatto con una realtà assai più immediata, ma persone con un forte sentimento umanitario, sociale e individuale.
Persone che abbiano fatto un percorso formativo sia di carattere sociale che spirituale.
Individui che possano capire la natura del problema e utilizzare la cura appropriata.
Proprio come un buon medico sa usare la medicina giusta per la malattia specifica.
Un mio maestro diceva:
“Il vero problema di questo secolo sta nel fatto che si vogliono curare le malattie di questo secolo con le medicine del secolo scorso…..vale a dire cercare di risolvere i problemi di questa società in continua espansione con i rimedi che andavano bene il secolo scorso.”
Con mie parole dico che una coscienza obsoleta e resa vecchia dalle tante frustrazioni della vita, e dal tempo, non può vedere le sempre nuove problematiche dei giovani che a giusta ragione sentono il desiderio di cavalcare questa loro epoca.
Perché questa epoca è di questi giovani, e questi giovani sono i figli della loro epoca.
La sola colpa a mio parere che si può fare a questo sistema, è che vuole intervenire su tutti e tutto, privando l’uomo della sua saggezza e sapiente discriminazione.
Certamente i vecchi dovrebbero farsi da parte e prepararsi a morire, perché così è il naturale corso della vita, ma evidentemente non accade, anzi è proprio l’opposto. Assistiamo a vecchi sclerotici che insozzano la società con i loro viscidi desideri di potere e così facendo sporcano tutto quello che toccano, e il guaio è che sono loro ai posti di comando.
Ma i giovani dove stanno ?
Chi è riuscito ad assopire (e spero solo assopire) il senso di libertà, di ribellione di avventura che da sempre ha caratterizzato lo spirito dei giovani ?
Chi ha ucciso l’ardore proprio del coraggio e dell’abnegazione che da sempre ha fatto la storia dell’uomo ?
Se nel corpo nuove cellule non spingono via le vecchie, il corpo invecchia e giunge la morte (non solo quella fisica che è naturale, ma quella dello spirito, dell’energia vitale, che è saggezza).
Allora, non verso il sistema va indirizzata la nostra attenzione, ma verso gli uomini, verso la pigrizia e la negligenza che fa andare in malora cose e attrezzature costosissime alla società, cioè a noi tutti.
Ora mi ritrovo ad avere quasi sessant’anni e parlando di queste cose mi rammento quando ne avevo solo ventuno di anni e cercavo il mio posto di lavoro ‘sicuro’.
Finii alla Breda di Saronno come operaio specializzato. Un giorno, trenta minuti prima del suono della sirena che annunciava la fine della giornata di lavoro, cioè alle 17, vidi molti miei colleghi, ma proprio i più anziani di fabbrica, nascondersi dietro le varie attrezzature in attesa della fine del lavoro.
Vengono chiamati ancora oggi ” gli imboscati” ricordo molto bene cosa mi passò nella testa: ” Ed io devo vivere quarant’anni della mia vita in questo posto per finire ad imboscarmi in questo modo?” .
Mi licenziai subito e andai a lavorare sulle navi passeggere e da carico.
Per quanto si viaggi su questo pianeta, gli uomini sono sempre gli stessi, portano in se i loro propri punti di vista, i loro condizionamenti, le loro proprie frustrazioni, le loro gioie e i loro dolori.
Anche lì, ho visto persone indurite dai tanti anni di lavoro saccheggiare e rompere valvole e materiale costoso che, solo con un po’ di buona volontà si poteva riparare.
Le persone non cambiano mai! Da sempre disprezzano la proprietà altrui.
Sono passati da allora quarant’anni e non vedo nulla di nuovo. Certo mio figlio ha il computer e va in internet, e anch’io mi sono ormai arreso e ho scelto la tastiera alle lotte di classe, ma è triste costatare che anche se la tecnologia ti fa sembrare e sperare in una emancipazione della specie umana, a mio modo di vedere stiamo attraversando un periodaccio.
Un periodo dove non si fa altro che criticare gli altri, e in tanto i nostri matrimoni vanno a rotoli, i nostri figli vengono inghiottiti dal dio del denaro, dall’idolo di turno, dal nuovo pagliaccio televisivo.
La realtà non è più cosa hai nel piatto, o come sta il tuo vicino, o il sole che sorge e che poi tramonterà, ma nella telenovela…..dio mio, e anche mia madre che ha ottantadue anni la guarda rapita…
Mi rivolgo quindi all’uomo, non al sistema. Il sistema non può amare, non può aiutare la madre straziata dal dolore perché il figlio gli è morto in guerra, il sistema non può curare il malato di tumore, capite questo ?
Il sistema protegge se stesso e per far questo crea guerre, malattie, frustrazioni di ogni genere, bisogni di ogni genere.
E’ l’uomo che sapientemente sa usare i mezzi idonei che può fare.
Certo si può fare, ma si deve partire dallo sconfiggere il modello ipocrita, assenteista, irresponsabile che si è annidato come un parassita nella mente dell’uomo. Il pensiero parassita che ti dice “cosa posso fare io ???”.
Sono questi parassiti che prendono le sembianze a volte di ideali, a volte di convinzioni religiose, altre politiche che ti mangiano la vita e mostrandoti l’immagine della felicità, ti fanno vivere una vita da miserabile.
Quando l’uomo non guarda in faccia un altro uomo, quando la parola data non è più presa in considerazione perché la menzogna è più vera della verità, allora dove andremo a finire, a chi lascerò i miei figli. Sarà forse il Caos il regnante su questo pianeta ?
No, io non credo, ma occorre stare bene in guardia sui falsi obbiettivi, sulle false promesse.
M’indegno quando penso ai nostri nonni, e TUTTI  ne hanno avuti, che sono morti sulle montagne, sui mari, nelle pianure per darci un fazzoletto di terra su cui crescere i nostri figli, e i figli dei nostri figli, e noi, loro discendenti, sangue dello stesso sangue ci lasciamo distruggere non solo la terra, e l’aria che entra nei nostri polmoni e in quelli dei nostri cari, ma lasciamo che ci strappino quei valori che sono lealtà-onore-rispetto.
Costruire un uomo nuovo è sempre stata la sfida di tutti i tempi.
Ci ha provato il Cristo con l’amore e il sacrificio, lo hanno ammazzato.
Ci ha provato il Buddha con saggezza e compassione, lo hanno ignorato.
Ci hanno provato i potenti con la violenza e l’odio, li hanno ammazzati.
Tanti, di buona e cattiva volontà ci hanno provato, hanno tentato, qualcuno ci ha creduto.
Tutti sono passati.
Noi cosa facciamo in attesa di morire ?
Come impegniamo la nostra vita?
Un caro Maestro diceva:
” Gli uomini si ammazzano di lavoro per avere un salario.
Cercano un salario per andare a divertirsi per poi ritornare ad ammazzarsi di lavoro ..
Si fanno un mucchio di illusioni riguardo la loro vita, ma noi non siamo altro che un sacco di pelle puzzolente riempito di ossa.
Tuttavia quest’uomo è Dio, Buddha se solo lo volesse “
.
Finisco qui e non so se queste riflessioni siano valse a qualcosa, detesto il parlare solo per parlare.
Comunque sia, vi rinnovo i miei più cari auguri.

[fonte – http://www.komyoji.eu/kengaku_pinciara.htm – Monastero Zen]

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