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Posts Tagged ‘Compassione’

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photo by Carlos Almeida

Consapevoli che la vera felicità si fonda sulla pace, la stabilità, la libertà e la compassione, siamo determinati a non porci  come scopo della vita la fama, il profitto, il benessere o il piacere sensuale,  a non accumulare ricchezza, mentre ci sono milioni di esseri che hanno fame e muoiono.  Ci impegniamo a vivere con semplicità e a condividere tempo,  energia e risorse materiali con chi ne ha bisogno.  Praticheremo il consumo consapevole, non usando alcol, droghe o altri prodotti  che introducano tossine in noi stessi, così come nel corpo e nella coscienza collettivi.

(Thich Nhat Hanh)

Thich_Nhat_Hanh

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photo by Marciano

Fate un esperimento: la prossima volta che fate una commissione,  che siete bloccati nel traffico o in fila al supermercato, invece di preoccuparvi  del tempo che impiegate e di ciò che avete da fare, prendetevi un momento  per inviare semplicemente pensieri amorevoli a tutti coloro che vi circondano.
Spesso c’è un cambiamento immediato e notevole,  nella misura in cui vi sentirete più connessi col presente.

(Joseph Goldstein – © perle.risveglio.net)

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foto by Marciano: http://olhares.aeiou.pt/o_barqueiro_da_luz_foto2920309.html

La consapevolezza paziente
Corrado Pensa

1. Nel Vangelo di Luca si legge: “Nella pazienza, possiederai il tuo cuore” 1. La parola greca per pazienza ha anche il significato di costanza, perseveranza. È una parola forte. Cuore traduce psyche che ha anche il significato di vita, mente, anima. Dunque, nella pazienza, diverrai uno col tuo cuore. Ricordo quanto mi colpì questa frase quando la lessi per la prima volta. Da questo passo la parola “pazienza”, piuttosto grigia nel nostro linguaggio abituale, emergeva luminosa e intensa. Anni dopo mi capitò di leggere alcune importanti riflessioni su questo tema di un autore cristiano molto noto, Henry Nouwen, e di alcuni altri autori, in un libro intitolato Compassione 2.

Dice Nouwen:

Se non siamo pazienti, non possiamo diventare compassionevoli. Non possiamo essere compassionevoli, se non siamo capaci di soffrire, se non sappiamo soffrire con gli altri, che è il significato della compassione.

In linguaggio dharmico potremmo dire che, se non siamo aperti alla nostra sofferenza, se non siamo pronti a un’esperienza diretta della nostra sofferenza, non c’è molta speranza che possiamo provare empatia per la sofferenza degli altri.

E Nouwen continua sottolineando alcuni punti fondamentali:

La pazienza è la capacità di vedere, sentire, toccare, assaporare e odorare il più pienamente possibile gli eventi interiori ed esteriori della nostra vita. È entrare nella nostra vita con occhi, orecchie e mani aperte in modo da conoscere veramente quello che accade. La pazienza è una disciplina assai difficile proprio perché è un movimento opposto al nostro impulso irriflessivo a fuggire o a combattere. – E conclude: – La pazienza ci chiede di andare al di là della scelta tra fuggire e lottare. È la terza via ed è la più difficile. Richiede disciplina perché va contro la tendenza dei nostri impulsi 3.

Nelle scritture, la pratica del Dharma è definita patiloma, che significa “controcorrente”. La pazienza comporta lo stare con, il vivere interamente, l’ascoltare attentamente ciò che si presenta qui e ora. A me sembra che l’affinità tra la descrizione di cos’è la vera pazienza e la definizione di presenza mentale, o sati, nel Dharma, sia molto forte, tanto che potremmo unire i linguaggi e parlare di consapevolezza paziente, così come si parla di consapevolezza non giudicante, di consapevolezza equanime, di consapevolezza affettuosa.

2. Ciò che va compreso è che queste qualità, la pazienza, l’equanimità, la sollecitudine, l’attitudine non giudicante sono intrinseche alla consapevolezza. In altri termini, se queste qualità non sono presenti, la consapevolezza non è vera e autentica consapevolezza. Non esiste una consapevolezza giudicante: non è consapevolezza. Dunque la vera pazienza è una di quelle qualità intrinseche che caratterizzano il gioiello di cui ci ha fatto dono il Buddha.

Come possiamo definire la consapevolezza, la presenza mentale, sati? Sati è la capacità di entrare in intimità con le cose, ma secondo un atteggiamento di non attaccamento e di non identificazione. Quindi con sollecitudine ed equanimità. Dal punto di vista dell’io è una contraddizione, è assolutamente incomprensibile, ma questa è per definizione la struttura stessa della consapevolezza.

Va da sé che sviluppare vera consapevolezza richiede un addestramento di immensa pazienza e un graduale affinamento della capacità di comprendere, di vedere in profondità. Facciamo un esempio. Supponiamo di essere tristi, che la tristezza sia il nostro stato emotivo predominante. Cosa facciamo di solito? La nostra reazione è condizionata, in ultima analisi, dall’ignoranza. Così, spesso, anche se non necessariamente, ci perdiamo nella tristezza e ci identifichiamo con essa. Con alcune variazioni sul tema: possiamo cadere nell’auto-commiserazione o nell’irritazione, a causa della tristezza. Finiamo così per accrescere la forza e il potere della tristezza. Ed è la nostra reazione abituale. Potremmo chiamare tristezza impura queste forme di tristezza, perché c’è un appesantimento dovuto a strati di reazioni, paure, avversioni. Ora, dando per scontato che il condizionamento basilare è l’ignoranza, se guardiamo in modo più ravvicinato, cos’è più accessibile alla nostra comprensione immediata? Prima di tutto notiamo il grandioso potere dell’abitudine. L’abitudine a reagire in un certo modo crea profondi solchi dai quali diventa poi difficile uscire. Perciò è importante sviluppare una sorta di controabitudine, la pratica, e cioè una forza adeguata, proporzionata, per neutralizzare le abitudini negative che causano la nostra fondamentale sofferenza nella vita.

In aggiunta all’abitudine, se osserviamo da vicino, notiamo qualcosa di più sottile, ma forse di ancora più importante. Si tratta della tendenza a investire un’enorme quantità di energia nel desiderio di liberarsi dello stato mentale spiacevole, per esempio la tristezza. Tale tendenza è presente spesso. Certe volte ne siamo liberi, ma la nostra tendenza è allora di indulgere nella tristezza: non solo non ce ne vogliamo liberare, ma ne vogliamo addirittura di più. Non voglio dire che rientrino nell’avversione alla tristezza piccole scelte di saggezza come parlare con un amico o immergersi nella natura, mi riferisco piuttosto a qualcosa di compulsivo, di ossessivo: pensare, giudicare, reagire per trovare come liberarsi di questa emozione spiacevole. Si può definire questa tendenza una totale non accettazione della tristezza o, appunto, avversione alla tristezza.

3. Ricordiamoci dell’insegnamento del Buddha sulle due frecce 4. Un uomo viene colpito da una freccia a una gamba. In breve l’insegnamento dice che, chi ha coltivato la pratica, prova solo la sofferenza dovuta al dolore fisico, una sofferenza pura. La persona ordinaria, invece, soffre a causa di una seconda freccia, che è l’intensa reazione mentale al dolore fisico.

Nella nostra vita ci sono infiniti esempi che illustrano questo insegnamento della doppia freccia. La prima freccia è la tristezza, la seconda è l’avversione alla tristezza. Nel sutta del Buddha viene spiegato molto chiaramente che il problema sta nella seconda freccia. Questa rafforza le tendenze latenti all’avversione e alimenta anche le tendenze latenti all’attaccamento, attaccamento alla gratificazione vista come unico antidoto alla frustrazione. La seconda freccia è il desiderio intenso di liberarci da uno stato mentale spiacevole.  Il problema non è la tristezza, ma il desiderio di liberarcene, perché questo desiderio è un’energia che ci separa dallo sperimentare in modo diretto la verità della tristezza. Essendo tormentati dal desiderio di liberarci da ciò che è spiacevole, anziché aprirci alla tristezza ci chiudiamo. Proprio questa chiusura è la seconda freccia. Restiamo così intrappolati nel nostro concetto di tristezza e nella nostra reazione a questo concetto, ma non facciamo un’esperienza viva della tristezza. Solo se decidiamo di fare questa esperienza reale il nostro rapporto con la tristezza cambierà, come cambierà la qualità stessa della tristezza.

Il desiderio di liberarci da emozioni spiacevoli è energia, non un semplice pensiero, ma qualcosa di denso e vischioso. Ecco perché il Buddha ha tanto sottolineato la forza del desiderio nutrito dall’ignoranza come causa prima della sofferenza nella nostra vita. Ed è di questo che si tratta nell’esempio della tristezza. E più gli esempi sono quotidiani più sono significativi, altrimenti tendiamo a idealizzare dukkha, a pensare alla sofferenza solo in termini di episodi drammatici, mentre dukkha, magari in piccole forme, è raro che non visiti le nostre giornate, e iniziando a praticare lo comprendiamo.

La via dell’impazienza è questo modo condizionato di reagire alle cosiddette emozioni negative, è energia distanziante che ci mantiene nell’immaginazione, nel pensiero della tristezza, anziché nella sua realtà, nella sua verità.

4. Dice Henry Nouwen:

Quale che sia la natura della nostra impazienza, noi vogliamo abbandonare lo stato fisico o mentale in cui ci troviamo e passare a un altro meno disagevole. Essenzialmente, l’impazienza è sperimentare il momento come vuoto, inutile, senza significato. È il desiderio di scappare il più in fretta possibile dal qui e ora 5.

Come sarebbe invece una risposta sveglia, consapevole e paziente alla tristezza o ad altri stati mentali? Prima di tutto si tratta di investire moltissima energia nella consapevolezza stessa, una consapevolezza immediata di cosa sta accadendo. Se lo facciamo, cominciamo a risvegliarci, iniziamo ad avere una percezione diretta, che è cosa ovviamente molto diversa dalla reattività o dalla rimozione. È un punto di svolta e la chiave è un interesse sempre più forte a rivolgersi alla consapevolezza, un interesse diventato quasi un istinto a scegliere la consapevolezza.

Prendiamo per esempio la fame. La nostra mente e il nostro corpo sanno che senza cibo si muore, dunque vogliamo il cibo, è un istinto. Quando la pratica si sviluppa, comincia ad accadere qualcosa di simile. Ci rendiamo conto che più la consapevolezza è disponibile, più la scegliamo, meglio viviamo. È semplice, ma finché non capiamo che più c’è consapevolezza meglio viviamo, questo interesse non si sviluppa e al massimo ci innamoriamo di un concetto. Ci piace parlare della consapevolezza, speculare sulla consapevolezza, leggere tutto il leggibile su di essa. Punto. Ma per fortuna esiste la pratica.

Come individui e come cultura abbiamo assegnato il primato al pensiero, alla parola e all’azione. Chi pratica, tuttavia, comincia a muoversi in un campo diverso, cioè nel campo della contemplazione. La contemplazione è essere consapevoli, è osservare in modo non giudicante, in modo sollecito, equanime.

Torniamo al nostro esempio: sorge la tristezza e, questa volta, vogliamo incontrarla, vogliamo entrare in intimità, vogliamo una relazione con la tristezza, perché la vita è relazione. Dunque, vogliamo cambiare la nostra prospettiva, il nostro atteggiamento riguardo agli stati mentali, alle emozioni. Cominciamo a intuire che la mente è il nocciolo della nostra vita. “La mente conduce, – dice il Dhammapada – e il resto segue”. Ma se siamo posseduti dal desiderio di liberarci dalla tristezza, come possiamo incontrarla? Tutta l’energia va nel desiderio di respingere questa realtà, questo incontro, dunque non c’è energia disponibile per la consapevolezza. È come cercare di accendere una fiamma mentre c’è un forte vento. La consapevolezza viene continuamente spenta, i nostri sforzi sono vani. Possiamo essere molto motivati, molto determinati, vogliamo sinceramente essere consapevoli, ma restiamo sempre più frustrati, perché la consapevolezza continua a spegnersi, perché tutta l’energia va nella direzione opposta. Quindi, finché non ci rendiamo conto di tutta l’energia che va nel desiderio di cacciare la tristezza, non possiamo lavorare per lasciar cadere questa energia. Quando finalmente la vediamo, allora e allora soltanto possiamo cominciare a lasciarla andare e la consapevolezza ha la possibilità di accendersi e di restare accesa.

5. L’esperienza diretta non è facile da praticare. L’esperienza diretta può accadere solo momento per momento. Lo sappiamo e insieme non lo sappiamo. Non appena abbandoniamo il momento presente, ci ritroviamo nel mondo del pensare, così spesso carico di giudizi e reattività. Non ci resta che ritornare più e più volte, con generosa pazienza, alla realtà del presente. Si tratta, dunque, di sentire direttamente, momento per momento, nel corpo e nella mente ciò che definiamo come sentirci tristi. Sensazioni, pensieri, emozioni: aprirsi a quanto sta accadendo a ogni istante. All’inizio può essere doloroso, perché di solito siamo avvolti da una tale quantità di pensieri e reattività che finiamo per avere una sensibilità meno intensa. Se cominciamo a lasciar cadere tutti questi strati, diventiamo più sensibili, meno protetti e dunque il primo impatto può essere doloroso. Ma se restiamo fermi, se continuiamo a sostenere la pratica, la dolorosità finisce per trasformarsi. Le emozioni negative, una volta spogliate dagli strati di reattività, di pensiero, e giudizio, cambiano. Sono più pure. Diventano sempre meno minacciose, meno dolorose. Cambia la nostra relazione con le emozioni. Siamo guidati da un interesse che è quasi un istinto a stare con ciò che è presente e vogliamo imparare sempre di più a starci.

Certo, è facile scivolare indietro e regredire a modalità primitive, primordiali, in cui la reattività sembra essere l’unica scelta ragionevole e non ci interessa più l’esperienza diretta. In pochi secondi possiamo creare un’intera ideologia e crederci ciecamente. È quello che le scritture chiamano il potere di avijja, dell’ignoranza, che nel linguaggio dharmico non è l’assenza di qualcosa, ma piuttosto qualcosa di attivo. Ci vuole molta pazienza per affrontare tutta l’ignoranza che ci portiamo appresso. La contemplazione paziente, la contemplazione affettuosa della tristezza sono un invito in più a praticare la consapevolezza anziché praticare la reattività, il giudizio, la reazione verbale; un invito a coltivare il primato della contemplazione anziché quello del pensiero e dell’azione. Quando la consapevolezza affettuosa rivolta a ciò che è presente qui e ora comincia a essere un valore, una vera priorità nella nostra vita, finalmente ci accorgiamo di avere una sorgente affidabile per il retto pensiero, per la retta azione, per la retta parola. Ma la contemplazione viene per prima, intendendo per contemplazione non un vago termine spirituale, bensì osservare ciò che si presenta momento per momento.

6. Questo è controcorrente, è patiloma, perché come primo impulso noi reagiamo, non contempliamo: dunque è necessaria una rieducazione. La pratica è rieducazione, riallineamento, rivoluzione. Non è un termine eccessivo: è una rivoluzione interiore, deve esserlo. Senza troppo rumore. Dunque nella pazienza, nella consapevolezza paziente, possiamo diventare uniti col nostro cuore, possiamo rasserenare il cuore.

Un’insegnante americana di tradizione Zen, Cheri Huber, ha detto:

Esplorare con accuratezza cosa significhi essere stanchi può rivelarci quella parte della personalità che ha un’opinione sulla stanchezza. Cosa c’è nell’essere stanchi che non mi piace? Quali sono le mie convinzioni sotterranee sulla stanchezza? La paura di cadere a pezzi? Di morire? E quali implicazioni comportano queste convinzioni nella mia vita? Come mi limitano? Qualcuno mi ha parlato di aver svolto un lavoro che richiedeva solo due movimenti e di che esperienza gioiosa fosse stata. Aveva compreso che l’esperienza era stata gioiosa perché la sua attenzione era pienamente concentrata su quanto stava facendo. Cosa accadrebbe se concentrassimo la nostra attenzione sulla sensazione che definiamo “stanchezza”? Potremmo avere la stessa gioiosa esperienza, restando solo assolutamente presenti alle sensazioni del corpo: questo genera di per sé energia. In ogni caso, se non ci precipitassimo a etichettarle, queste sensazioni non sarebbero più percepite come stanchezza 6.

Quindi, se continuiamo a contemplare, scopriamo che il problema fondamentale è una sorta di nodo dentro il corpo e che quel nodo è una resistenza a quanto sta accadendo. Il problema non è la stanchezza, ma la resistenza alla stanchezza. Lo sappiamo? Sì e no.

7. Faccio un esempio personale. Nel corso dell’anno conduco corsi di meditazione il lunedì e il martedì sera, il che significa che almeno due volte a settimana vado a dormire tardi. Se mi capita di andare a letto tardi anche il mercoledì e il giovedì, è più che probabile che il venerdì mi trovi a essere completamente fuori centro. E mi sono accorto che nasce in me un modo sottile di minare la pratica, una voce che dice: “Se tu fossi più disciplinato, la pratica andrebbe meglio”. Ma in quel momento la mia pratica è stare con la stanchezza e con l’essere fuori centro! Il resto sono solo pensieri che cercano di evitare ciò che è presente. Quando invece riesco ad aprirmi alla stanchezza, allora mi risveglio a quello che è presente, anziché battagliare, resistere o lamentarmi. Vedo la contrazione della stanchezza nel corpo e nella mente, vedo l’attaccamento a ciò che potrebbe dare sollievo, e continuando a restare presente, accade talvolta qualcosa di bello ed è che sotto questo movimento mentale dell’affaticamento c’è pace. Ma se non mi fermo, non posso percepirlo, non posso sentire quella zona di pace. Dunque, la stanchezza è spiacevole, ma non è la stanchezza in sé a essere un problema. Il problema è la resistenza alla stanchezza, è l’autogiudizio a causa della stanchezza. Non è la stanchezza il problema, altrimenti non ci sarebbe alcuna possibilità di percepire la pace, di percepire la spaziosità. Non è lo stato mentale il problema, ma il modo in cui lo trattiamo. È la seconda freccia il problema, non la prima.

È anche interessante osservare cosa accade quando siamo pieni di energia e ci sentiamo bene. È facile che finiamo per incanalare l’energia in progetti, in pensieri, in qualche azione di immediata utilità, perché questi sono i valori da seguire per non sentire di “sprecare” il benessere. Il benessere è una cosa positiva, non ha di per sé niente di manchevole. Il problema sta nella nostra reazione eccitata ad esso, nel nostro non poter nemmeno concepire la possibilità di contemplarlo. Meglio “goderselo”. Perché contemplarlo? Ma la consapevolezza è consapevolezza di ciò che è presente e, se è presente il benessere, perché non esserne consapevoli? Scopriremmo, tra l’altro, che in virtù della consapevolezza, ce lo godiamo molto di più.

Abbiamo detto che il desiderio di disfarsi di uno stato negativo è problematico perché è un’energia che distoglie dallo sperimentare in modo diretto ciò che è presente, ma abbiamo anche aggiunto che è un impulso comprensibile. Perché? Perché volersi liberare di uno stato mentale negativo è anche un’espressione dell’universale aspirazione alla felicità. Ma tale espressione è distorta e, come possiamo verificare continuamente, non porta alla felicità. Ricordiamoci che uno degli scopi primari della nostra pratica è purificare questo tipo di desiderio, in modo che l’aspirazione alla felicità possa fiorire nel modo giusto, sempre più purificato dall’ignoranza. È importante non essere giudicanti nei confronti dei nostri attaccamenti, delle nostre avversioni dolorose e di quelle degli altri, perché sotto questi attaccamenti e avversioni c’è il nostro legittimo desiderio di felicità.

NOTE

1. Luca 21, 19.

2. H.J.M. Nouwen, D.P. McNeill, D.A. Morrison, Compassion, New York 1983, p. 92.

3. Ivi, p. 93.

4. Sallasutta, Il discorso della freccia, Samyutta Nikaya, 36. 6.

5. Nouwen, cit. , p. 96.

6. Ch. Huber, Sweet Zen, Present Perfect Books, 2000, pp. 33-34.

fonte –  http://digilander.libero.it/Ameco/index.htm

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Il Silenzio tra due Onde
Il Silenzio tra due Onde
Corrado Pensa
Il Silenzio tra due Onde
Il Buddha, la meditazione, la fiducia
II più autorevole esperto italiano di filosofia orientale ci accompagna in un viaggio…

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Vorrei spiegare il significato della compassione, che è spesso mal compreso. La vera compassione non si basa sulle nostre proiezioni e aspettative, ma, piuttosto, sui diritti dell’altro: indipendentemente dal fatto che l’altra persona sia un amico intimo o un nemico, nella misura in cui detta persona vuole pace e felicità e vuole evitare la sofferenza, su questa base possiamo sviluppare una genuina preoccupazione per i suoi problemi.

Questa è la vera compassione. Di solito, quando siamo interessati alla sorte di un amico intimo, chiamiamo quest’interesse “compassione”; ma non è compassione, è attaccamento.

Anche nel matrimonio, in quei matrimonï che durano poco, ciò avviene a causa dell’attaccamento.

I matrimoni durano poco a causa della mancanza di compassione; c’è solo attaccamento emotivo, basato sulle proiezioni e sulle aspettative.

Se l’unico legame fra amici intimi è l’attaccamento, allora anche un’inezia può indurre un mutamento delle proiezioni. Non appena le proiezioni cambiano, l’attaccamento scompare, perché quell’attaccamento era basato solo sulle proiezioni e sulle aspettative.

È possibile avere compassione senza attaccamento e, similmente, provare rabbia senza odio. Di conseguenza dobbiamo chiarire le distinzioni fra compassione e attaccamento e fra rabbia e odio.

Tale chiarezza ci è utile nella vita quotidiana e nell’impegno per la pace nel mondo. Ritengo che questi siano i valori spirituali di base per la felicità di tutti gli esseri umani, che siano credenti o meno.

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(Tenzin Gyatzo, XIV Dalai Lama – © copyleft perle.risveglio.net)

Libri sulla Compassione

La nostra esistenza sulla terra dipende dalla Compassione di Dio, eppure il suo significato ci sfugge. Sri Chinmoy spiega che per capire la Compassione, prima dobbiamo riconoscerla e per riconoscerla dobbiamo prima sperimentarla. E’ la Compassione di Dio che ci modella, ci guida e ci illumina ad ogni passo del nostro viaggio attraverso la vita. La Compassione divina è come una pioggia scrosciante sulle nostre vite. Più preghiamo Dio per ottenere Compassione, più Egli ci inonda con la Sua Compassione. Sri Chinmoy dice che in cambio, Dio ci chiede solo di distribuire questa Compassione ai nostri compagni di viaggio sulla terra.

Comprendere e amare gli altri per vivere in armonia col mondo

Il Dalai Lama ama ripetere che lui è un uomo qualunque. In realtà, le sue parole e il suo insegnamento sono molto distanti dai miti contemporanei. Come ignorare il fatto che la competitività esasperata, la rabbia, l’invidia e l’intolleranza sono alla base di molti rapporti umani, da quelli famigliari a quelli religiosi o politici? Svolgendo con parole pacate e argute un ragionamento inoppugnabile, Sua Santità ci dimostra invece che questi atteggiamenti sono distruttivi per gli altri ma soprattutto per noi stessi, e dunque dobbiamo addestrare la mente a un approccio completamente diverso: l’amore e la compassione, cioè il desiderio di aiutare gli altri, nostri inseparabili e necessari compagni di viaggio lungo il cammino esistenziale. Se infatti impariamo a riconoscere questa totale interdipendenza, ci diventerà chiaro che ogni nostra azione e pensiero dovrà rivolgersi verso il bene comune. Certo, non è un compito facile, piuttosto un’arte: l’arte di costruire insieme un mondo migliore.

Consigli semplici per una vita di consapevolezza e compassione

Cuore zen è un libro cristallino. La lettura è leggera e scorrevole, tanto che a volte sembra difficile cogliere la profondità delle esperienze che descrive.

Per amore di chiarezza l’autore divide il percorso meditativo in tre fasi, e riesce così a tracciare un quadro esaustivo, semplice,
ma non semplicistico, del sentiero della pratica. Secondo Bayda, l’io in quanto ‘me’, in quanto personalità, sé individuale, ha necessità di essere esplorato al fine di compiere un percorso spirituale completo, e ciò avviene nella ‘fase del me’. Ma la conoscenza di sé, dei propri meccanismi di difesa, dei propri schemi emotivi, non esaurisce la comprensione cui da accesso la meditazione.

‘Essere consapevolezza’ ed ‘essere gentilezza’ non sono solo possibilità effettive dell’uomo, sono la sua vera natura.

L’autore illustra gli ostacoli, diversi per ognuno, ma riconducibili ad alcuni meccanismi ripetitivi, così come i pilastri della pratica e le qualità necessarie al risveglio.

Egli non insiste sul primato di una via sull’altra, pur definendosi insegnante di zen, e si concentra piuttosto su una disamina attenta ed esauriente di un cammino di realizzazione, esprimendo in tutta la sua complessità le vicissitudini umane di qualcuno che ha cercato risveglio e compassione. Il volume si completa con alcuni interessanti suggerimenti pratici ed esercizi per accogliere tutti gli eventi della vita, invece di fuggire, arrabbiarsi o tentare invano di controllarli.

Discepolo di Charlotte Joko Beck, la fondatrice della scuola di zen americano Ordinary Mind, Ezra Bayda insegna una pratica zen spogliata di ogni connotazione orientale e ridotta all’essenziale: essere presenti alla vita quotidiana con attenzione e consapevolezza. Questo è il segreto, sorprendentemente semplice, della vita spirituale: basta applicarlo nella propria vita quotidiana e il mondo intero diviene il nostro maestro, ci risvegliamo alla sacralità della vita e siamo colmi naturalmente di compassione per tutti gli esseri.
Ma semplice non significa facile, e certo non è facile essere presenti agli aspetti più dolorosi o imbarazzanti della vita. Cuore zen
insegna una pratica in grado di trasformare le esperienze difficili in stadi preziosi del sentiero spirituale e di rendere la consapevolezza un’abitudine quotidiana.

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Equanimità

001-40foto by Marciano – http://olhares.aeiou.pt/amorfos_silencios_foto2686239.html

Articolo di Christina Feldman
Discorso tenuto a Roma il 28 gennaio 2006.

L’equanimità viene talvolta descritta come una spaziosa tranquillità della mente, una calma radiosa o un equilibrio interiore. Tuttavia questo saldo equilibro non è qualcosa di lontano o distante dalla vita, ma si sviluppa all’interno della nostra disponibilit à e capacità di andare incontro a tutti i momenti della vita con eguale rispetto, compassione e sensibilità.

Per incontrare tutti i momenti della nostra vita con eguale rispetto dobbiamo rinunciare a essere favorevoli o contrari a qualcosa, rinunciare al rigetto e al perseguimento, alla ricerca e al rifiuto.  Nella tradizione tibetana l’equanimità viene descritta come qualcosa ugualmente vicina a tutte le cose, come un precursore della compassione, uno dei suoi aspetti essenziali.
Per sapere cosa significa rimanere tranquilli e aperti in mezzo alla sofferenza, dobbiamo in qualche modo rinunciare alle nostre idee su cosa sia giusto o sbagliato, su ciò che si dovrebbe o non si dovrebbe fare, in modo da poter ascoltare senza timore dolore e sofferenza.

Sembra che per ascoltare con attenzione la storia di un’altra persona o la storia della vita, dobbiamo in certa misura calmare la nostra stessa storia. Si dice anche che l’equanimità preceda la retta azione e la retta parola.

Ci rendiamo conto che le risposte che fanno realmente la differenza in questo mondo raramente nascono dall’agitazione, dalla paura o dal desiderio.
Le reazioni realmente differenti in questo mondo nascono dalla tranquillità e dall’equilibrio. Non credo che sia utile pensare sempre all’equanimità come a una condizione o un luogo poiché non è qualcosa che raggiungiamo e in cui poi ci ritiriamo.

L’equanimità è in realtà un continuo viaggio. La nostra vita non rimane congelata nel tempo per cui niente cambia più; l’equanimità deve rimanere fluida come la nostra vita, come un modo di andare incontro alla nostra esistenza mutevole, al nostro corpo e alla mente cangianti e a tutti gli eventi che ci capitano.

È facile convincerci che questo tipo di tranquillità interiore e di equilibrio siano irraggiungibili. Potremmo pensare che sia troppo difficile, se non impossibile, rimanere equilibrati e fermi nel bel mezzo di tutti i momenti estremi della vita. Ma io credo che ci basta solo un breve momento di riflessione per sapere quanto sia ben più duro essere continuamente persi nei due estremi di amore e odio, felicità e disperazione, dell’essere favorevoli o contrari a qualcosa.

Equanimità, almeno in inglese, non è una parola che viene usata molto spesso. Raramente incontriamo qualcuno e gli diciamo: Ho avuto una giornata profondamente equanime.. Ci sono altre parole nel nostro vocabolario che usiamo molto più spesso:
Mi piace molto questo, mi piace molto quest’altro. Non vedo l’ora che arrivi domani, oppure ne ho paura.. Se vogliamo drammatizzare, diciamo: .Ho veramente bisogno di questo o sono assolutamente contrario a quest.altro.. Se incontrate un amico che non avete visto da tempo e vi chiede come state, spesso la sua domanda apre la porta a un fiume di racconti di tutti gli eventi che ci sono accaduti.

Diciamo: .Ho avuto un periodo tremendo ., oppure .La vita è stata entusiasmante!., .Mi sono innamorato . oppure .Sono stato veramente triste.. Se dicessimo: .Non è accaduto nulla e la mia mente e il cuore sono rimastiimpassibili. L’equilibrio e l’equanimità sono stati la mia casa. Ci sembrerebbe di presentarci come delle persone noiose e tristi che verranno trascurate o ignorate.

Un modo di concepire la nostra vita è quella di vederla come un interminabile flusso di eventi, in cui un fatto segue a un altro. La nostra vita è simile a un grande fiume che nasce come una piccola sorgente che giunge in superficie e che s’ingrossa sempre di più. E nel corso del fiume ci saranno punti in cui l’acqua è quieta e punti in cui ci sono delle rapide. Vi saranno zone in cui l’acqua scorre lenta che però potranno trasformarsi in cascate.

Come non potremmo decidere di fermare il fiume così non possiamo pensare di fermare il sorgere e passare degli eventi nella nostra vita. Non possiamo scegliere di avere solo i periodi di calma e probabilmente non siamo nemmeno sicuri di volerlo. Non potremmo nemmeno scegliere di rimanere sempre in acque agitate. Nel corso della nostra vita avremo tutti la nostra razione di lodi e rimproveri, approvazione e disapprovazione, guadagno e perdita, momenti di piacere e di dolore. In questa tradizione, per descrivere gli eventi nel corso della vita, si parla degli otto dharma mondani. In generale vi sono gli estremi di felicità e dolore, gli estremi di disperazione e speranza, di desiderio e avversione.

Se pensiamo a tutti gli accadimenti di una singola vita, quelli che il Buddha chiama le diecimila gioie e dolori, molti di questi eventi sembrano quasi essere stati creati per farci perdere l’equilibrio. Non penso che possiamo nemmeno immaginare di raggiungere un punto della nostra vita in cui avremmo una corazza o una difesa che ci tenga a distanza dal mondo degli eventi. Non penso che si possa immaginare di raggiungere un punto della nostra vita in cui diremmo: .Ora è tutto sotto controllo. Non sarò mai più sorpreso dal cambiamento. e che in qualche modo l’ordine e la prevedibilità siano stati raggiunti.

La sola cosa su cui possiamo realmente contare in questa vita è che niente ci apparterrà veramente, niente rimarrà e niente sarà immutato. Questo lo vedo spesso nell’insegnamento quando faccio un discorso di Dharma e poi ricevo alcuni commenti entusiastici e altri assolutamente tiepidi o critici.

Certamente possiamo ottenere approvazione in questa vita e quindi trascorrere momenti o addirittura ore compiacendoci con noi stessi, dicendoci quanto siamo meravigliosi, mentre solo alcune ore più tardi possiamo vergognarci se qualcuno ci disapprova. La nostra bella meditazione, il nostro grande amore, lo stato di salute, la nostra gioventù, tutte queste cose possono andare perdute e talvolta si trasformano in qualcosa di meno gradito.

Anche il piacere può trasformarsi rapidamente in dolore. Una donna che abita in una cittadina vicina, mi disse che dopo lo tsunami in cui era morto il figlio, aveva ricevuto una sua cartolina in cui le scriveva: .Sono in paradiso, questo è il periodo migliore della mia vita.. I cambiamenti tra piacere e dolore non sono sempre così distruttivi.

Possiamo gustare il canto degli uccelli e poi arriva sulla strada il camion dei rifiuti. Un momento possiamo essere occupati da una piacevole fantasia e il momento dopo trovarci in un incubo di ossessioni. Possiamo anche notare che il dolore talvolta si trasforma in gioia. Possiamo essere persi in qualche tremendo spazio limitato, ne possiamo uscire e ritrovarci all.improvviso profondamente toccati dalla vista del sole al di sopra degli alberi.

Il dolore del corpo che pensiamo sia interminabile, d’un tratto si trasforma in un grande senso di benessere. Penso che ripetutamente nella vita sperimentiamo come il senso di equilibrio appare così fragile, così precario e nonostante ciò continuiamo a respirare, il nostro cuore batte ancora e rimaniamo presenti nella nostra vita. Talvolta penso che ci chiediamo come i nostri cuori possano assorbire questo continuo flusso di eventi senza andare in pezzi. Ci chiediamo come poter trovare l’equanimità che ci permetta di andare incontro a tutti questi eventi con eguale rispetto. Ci chiediamo anche quanto profondamente possiamo capire che tutti i nostri sforzi di controllare l’incontrollabile siano vani e facciano solo soffrire.

Per la verità, l’equanimità richiede la saggezza di un Buddha. Non sono solo gli eventi esteriori della vita a richiederci di trovare questa calma radicale, ma anche gli eventi interni delle nostre emozioni e stati mentali.

Un paio d’anni fa mi trovavo in America durante le ultime elezioni presidenziali. Ero con alcuni amici a guardare i primi risultati in televisione. Era così interessante vedere come la serata era cominciata con un po. di speranza, che poi si era gradualmente trasformata in disperazione, poi era riemersa ancora un po. di speranza, mentre eravamo in attesa dei risultati dell’Ohio, per essere poi definitivamente distrutta ancora. Ma la cosa evidente era che in tutto il paese vi erano tante persone che guardavano lo stesso evento e sperimentavano gli stessi alti e bassi in momenti completamente opposti. Quindi la mia speranza significava la disperazione di qualcun altro e quelle che per me erano cattive notizie erano buone per qualcun altro. Talvolta ci chiediamo: .Equanimità significa che non avremo più emozioni o sensazioni?.. Penso di no. Vorrei leggervi qualcosa che forse alcuni di voi già conoscono.

Se riuscite a restare tranquillamente seduti dopo delle cattive notizie, se in un momento di difficoltà finanziarie rimanete perfettamente calmi, se vedete i vostri vicini fare un viaggio in paesi esotici senza una fitta di gelosia, se riuscite a mangiare con soddisfazione qualsiasi cosa vi si metta nel piatto, se riuscite ad amare incondizionatamente quelli che vi circondano, se potete addormentarvi dopo una giornata impegnativa senza prendere una bevanda alcolica o una pillola, se potere essere sempre contenti dovunque vi troviate,  siete probabilmente un cane.

L’equanimità non è l’assenza di sensazioni bensì la presenza di equilibrio nel mondo delle sensazioni. Vediamo ora qual è l’elemento di saggezza dell’equanimità. La prima pietra angolare dell’equanimità è la nostra disponibilità e capacità di abbracciare la realtà dell’impermanenza e la nostra capacità di farlo dipende dalla nostra disponibilità.
Possiamo comprendere veramente che in ogni cosa che sorge vi è la storia della sua scomparsa e della sua morte, con i suoi momenti di fama e disgrazia, di amore e odio, di guadagno e perdita. Nessuno di questi si può afferrare in quanto fanno tutti egualmente parte del tessuto dell.impermanenza. Lo sappiamo e tuttavia è lì che abbiamo l’amnesia più grande. Sempre è un pensiero che abbiamo spesso. Vogliamo che qualcosa duri per sempre oppure temiamo che sia per sempre. Se non abbracciamo l’impermanenza ci perdiamo nell’avversione e nella resistenza o ci perdiamo nello sforzo di trattenere e mantenere eventi che stanno già passando. In entrambi i casi siamo egualmente persi nella dimenticanza del cambiamento.

Quando cadiamo nei due estremi di cercare di mantenere qualcosa o di liberarcene, sacrifichiamo la nostra capacità di essere egualmente vicini a tutte le cose e di andare incontro a tutti i momenti con lo stesso rispetto. Alcuni anni fa all’Insight Meditation Center, il centro negli Stati Uniti dove insegno, c’era una serie di piatti di tutte le forme e colori e delle tazze scheggiate con delle scritte sopra per cui lo staff aveva deciso di sostituirli con dei semplici piatti bianchi. Questa semplice scelta dette l’avvvio a una serie di commenti da parte dei meditanti: .Come posso rinunciare alla mia tazza preferita?  oppure Come posso iniziare il ritiro così turbato?.. E ricordiamoci che si tratta di un centro di Dharma in cui si danno continuamente insegnamenti sull’impermanenza.

Penso che non sempre ci rendiamo conto di quanto il nostro sentirci equilibrati e calmi dipenda dal fatto che le grandi e piccole cose della nostra vita rimangono immutabili. Ce ne rendiamo conto solo quando cambiano.

E poi ci rendiamo conto di come questo filo dell’attaccamento percorra tutta la nostra vita. Non ci mancano le opportunità per contemplare l’impermanenza. Basta aprire i nostri cuori alla verità di un singolo giorno, di una singola seduta, di una singola ora, e vedere quante nascite e morti, inizi e fini. Allora ci chiederemo che cosa in realtà ci stia insegnando tutto questo. Una lezione è che anche questo passerà e comprendere ciò costituisce una delle pietre angolari dell’equanimità.

La seconda pietra angolare dell’equanimità è la comprensione della natura della nostra intossicazione. Se qualcuno ci offrisse una tessera a vita per le più alte montagne russe del mondo, all’inizio, anche in base al nostro temperamento, potremmo pensare che si tratti di un bel regalo. Nei primi giorni potreste provare l’eccitazione e il divertimento della corsa anche con grande intensità. Ma provate a immaginare di doverlo fare, giorno dopo giorno, per il resto della vita.

Immaginate tutta la vostra vita a Disneyland! Penso che dopo un pò di tempo l’eccitazione comincerebbe a logorarsi. Ma in qualche modo sembra che noi non perdiamo l’intossicazione di percorrere come fossero montagne russe gli eventi della nostra vita, sia internamente che esternamente.

Con questo tipo di intossicazione l’equanimità scompare. Allora penso che sia utile chiederci che cosa ci conduce a questa intossicazione di intensità, cosa ci spinge ad attraversare la vita alla ricerca di esperienze eccitanti sempre nuove, che cosa nutrono in noi gli estremi di amore e odio, guadagno e perdita.

Credo che ci voglia solo un pò di consapevolezza per vedere che il nostro senso dell’io, il nostro senso di chi siamo, è anch’esso un evento che sorge e passa in innumerevoli forme differenti in una singola giornata.

Pensate, ad esempio, a quanti diversi stati dell’io avete sperimentato oggi: la noia, l’eccitazione, la fame, l’interesse, la monotonia, l’irrequietezza. Pensate a quanti stati dell’io avete sperimentato nella vostra vita: la felicità, la tristezza, l’andare da qualche parte, il non andare da nessuna parte, essere giovane, essere vecchio, essere ansiosi ed eccitati.

Lo stato dell’io sorge e passa sempre ed è collegato a tutti gli altri stati che sorgono e passano. Il nostro senso dell’io è un evento unito a tutti gli eventi delle emozioni e dei pensieri, e fa parte del mondo degli eventi esterni. Talvolta vediamo che lo stato dell’io è influenzato da un fatto esterno. Ora che siete seduti qui nella sala e siete molto calmi, questo è uno stato molto calmo dell’io. Poi all’improvviso la persona accanto a voi comincia a tossire e starnutire e immediatamente vedete la reazione ansiosa e avversiva dell’io in risposta a questo evento.

Talvolta gli avvenimenti esterni della nostra vita prendono il sapore e colore dello stato interiore dell’io.  Se vi è uno stato di tristezza o impazienza dell’io, d’un tratto ogni cosa del mondo diventa potenzialmente irritante e tanti di questi eventi sembrano sorgere dal nulla. La domanda da farci è: chi saremmo al di fuori di questi eventi dell’io? Chi saremmo senza definire un evento? La fonte della nostra intossicazione è il bisogno di avere un evento per essere qualcuno, in quanto il pensiero di non essere nessuno ci è così inconsueto e inquietante che vi opponiamo una forte resistenza.

In realtà non c’è fine agli eventi della vita che ci danno la possibilità di essere qualcuno. Essere equanimi è la risposta alla domanda di chi saremmo senza un evento che ci definisca.

c’è una splendida poesia nella tradizione Zen che dice:

10.000 fiori in primavera
la luna in autunno
una fresca brezza in estate
e la neve in inverno.

Se la vostra mente non è annebbiata da pensieri inutili, questa è la stagione più bella della vostra vita. Le cose inutili sono le nostre posizioni a favore o contro qualcosa, gli attaccamenti e le avversioni, le paure e le aspettative. Le cose inutili sono le definizioni mutevoli dell’io, senza le quali la nostra equanimità sarebbe ricca e profonda.

La terza pietra angolare della saggezza, che fa parte dell’equanimità, è la comprensione profonda del rapporto con le sensazioni (vedaná), che sono il secondo fondamento della consapevolezza. Vale a dire riconoscere il piacevole come piacevole, lo spiacevole come spiacevole e il neutro come neutro.

Quando non siamo consapevoli delle nostre sensazioni muoviamo il primo passo verso l’intossicazione, verso lo squilibrio. Per coltivare l’equanimità è necessario praticare quando non siamo equanimi, vale a dire in quella gamma di sensazioni che sorgono. Nella vita ci sono molte sensazioni piacevoli, quali suoni, pensieri, gusti e contatti, ma forse non ce ne sono abbastanza rispetto ai nostri desideri. L’equanimità non richiede che noi resistiamo al piacevole, che è la radice della gioia, della gentilezza amorevole e dell’apprezzamento.

Ma il piacevole è anche il luogo in cui il desiderio intenso può costruire la sua dimora, vale a dire quando accompagniamo il piacevole con la mancanza, il bisogno, e quando ci perdiamo nell’evento del piacevole. È come fare una passeggiata in un giardino in cui c’è molto di piacevole, come gli alberi e l’erba.

Possiamo goderne, ma possiamo anche fare dei passi ulteriori. Possiamo dirci: .Non tornerò in quella sala buia., .Sposterò il mio cuscino all.esterno., .La prossima volta che verrò porterò con me il mio libro sugli uccelli in mododa poterli identificare tutti., .Forse porterò la merenda..

Tutto ciò che abbiamo elaborato sul desiderio, quando ci dimentichiamo del cambiamento e dell’intossicazione, è che abbiamo trasformato il piacevole in un progetto o in un evento che vogliamo rendere .nostro.. Nella vita vi sono più sensazioni spiacevoli di quelle che vorremmo, ma le nostre avversioni non ci proteggono dallo spiacevole e noi tendiamo a trasformare lo spiacevole in un evento o in un progetto. Forse abbiamo voglia di uscire anche se piove e ci diciamo che la prossima volta faremo un ritiro in Spagna. C’è anche molto nella vita che è neutro, né piacevole né spiacevole. Il neutro è l’evento più difficile cui l’io possa appigliarsi, perché nella condizione neutra sembra che non accada nulla e pertanto la nostra risposta consueta a tutto ciò è di dirci che è noioso. La vita va naturalmente avanti, invitando la nostra presenza sensibile e pronta, ma ciò che scopriamo è il sentirci incapaci di riposare in uno spazio senza eventi, per cui entriamo rapidamente nel moto del desiderio, in modo da far accadere qualcosa.

Imparare a lasciare andare il desiderio, l’avversione e lo spazio fra i due significa cominciare a coltivare l’equanimità, vale a dire trovare quella calma radiosa che illumina e abbraccia tutte le cose, conoscere veramente e profondamente che in questo momento non manca nulla.

Ciò che si libera nel lasciar andare è la nostra capacità di incontrare tutti i momenti della vita con la stessa attenzione. Trovare l’equilibrio è una pratica, e per farlo abbiamo bisogno di provare interesse per i momenti in cui lo perdiamo. Il sentiero dell’equanimità non è separato dal mondo della sofferenza e del caos, in quanto vi fonda le sue radici. In tutti i momenti in cui troviamo il coraggio e la fermezza in mezzo al cambiamento e alla sofferenza, impariamo che possiamo abbracciare questo mondo di eventi senza esserne sopraffatti e senza provare amarezza o paura.

La pratica dell’equanimità è assolutamente centrale nel cammino della compassione.
È una profonda e imperturbabile calma interiore.

Patricia Feldman

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